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In un mondo sempre più caldo. Conversazione con Gianfranco Bologna, Wwf Italia di Paola Fraschini
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In un mondo sempre più caldo
Conversazione con Gianfranco Bologna, Wwf Italia
di Paola Fraschini

L’edizione 2009 di State of the World è dedicata a un tema scottante, quello dei cambiamenti climatici. Il Rapporto mette chiaramente in risalto quali potrebbero essere gli effetti dell’inazione, ispirata da un approccio che predilige la passività e, viceversa, dell’azione, messa in moto per mitigare le emissioni di gas serra ed evitare così gli impatti più devastanti. Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha definito i cambiamenti climatici “la vera sfida della nostra epoca”. In tutto il mondo, molti leader politici hanno rilasciato dichiarazioni simili per sottolineare l’importanza vitale di inglobare la “variabile” climatica nei programmi per il futuro.
State 2009 inquadra la delicata questione climatica nel modo più ampio, evidenziando quanto sia urgente non solo una conversione di scala “planetaria” alle fonti energetiche a basse emissioni, ma anche un diverso approccio in termini di scelte e comportamenti individuali. Fondamentale per tutte le soluzioni messe in campo da qui al futuro, è la creazione di una diversa governance, che abbia la forza e la capacità di imporre l’effettiva applicazione degli accordi internazionali.
Il messaggio più forte che emerge da State 2009 è che se il mondo non provvederà ad attuare quanto prima adeguate contromisure, l’impatto prodotto dai cambiamenti climatici sarà devastante e supererà la nostra capacità di adattamento. Gli interventi di mitigazione che potrebbero rovesciare la prospettiva sopra accennata sono già attuabili a costi sostenibili e la loro realizzazione produrrà numerosi benefici collaterali per molti settori della società. Per questo è essenziale che il mondo inizi a guardare “oltre”, a superare la consueta inazione, se vuole evitare di soccombere di fronte a una crisi con cui dovremo fare i conti se non agiamo subito.
Quest’anno State of the World esce, con un tempismo perfetto, mentre i governi del mondo sono impegnati nella ricerca di un accordo globale che consenta di affrontare le sfide climatiche (in vista del vertice di Copenaghen di fine 2009). L’augurio è che i suoi contenuti possano influenzare i negoziatori dei singoli paesi, spingendoli a guardare al di là dal ristretto orizzonte dei problemi più imminenti.
Dei contenuti di State 2009 parliamo quindi con Gianfranco Bologna, direttore scientifico e culturale del Wwf Italia, curatore da 22 anni dell’edizione italiana del rapporto del Worldwatch Institute.

Il dissesto del clima coinvolgerà tutti gli abitanti della Terra. Che cosa dobbiamo aspettarci da un mondo “sempre più caldo”? L’umanità ce la farà ad adattarsi? A quale prezzo?
Il Congresso annuale dell’American Association for the Advancement of Sciences (Aaas, l’istituzione scientifica statunitense che pubblica Science, una delle maggiori riviste scientifiche al mondo), che si è tenuto in questi ultimi giorni a Chicago, ha ribadito in una serie di interventi di alcuni tra i maggiori specialisti mondiali dei problemi del clima, che il cambiamento climatico in atto è più accelerato di quanto sino a ora si fosse pensato. Le emissioni di biossido di carbonio che hanno avuto luogo dal 2000 a oggi hanno già sorpassato le stime riportate negli scenari dell’ultimo rapporto Ipcc del 2007. Tutti i più autorevoli studi fanno presente quanto la situazione stia peggiorando rapidamente, quanto possa essere probabile che si producano sorpassi delle soglie e dei punti critici oltre i quali i sistemi entrano in una situazione di effetti a cascata e feedback che difficilmente potranno essere gestiti dal genere umano, quanto i problemi che possono derivare da un’accelerazione dell’incremento dell’effetto serra naturale possano condurre a una conseguente accelerazione dei fenomeni meteorici estremi. È urgente quindi avviare, oltre che immediate politiche di riduzione dei gas climalteranti, politiche di adattamento che si basino soprattutto sul mantenimento della vitalità dei sistemi naturali (base fondamentale del benessere e dell’economia delle società umane). Quanto più si agisce in tempo tanto più si è in grado di affrontare al meglio i cambiamenti previsti, tenendo sempre conto che ci troviamo di fronte a una sfida epocale se si considera, ad esempio, il contemporaneo e straordinario incremento della popolazione umana che, stando alle proiezioni Onu, potrebbe verosimilmente raggiungere gli oltre 9 miliardi nel 2050. I costi dell’adattamento e della mitigazione sono indispensabili e, considerandoli dal punto di vista della teoria bioeconomica – ovvero tenendo conto dei valori economici relativi ai sistemi naturali e alle società umane normalmente non contabilizzati dai classici indicatori come il Pil –, non possono essere certo considerati costi ma vera e propria salvaguardia del capitale.

Il cambiamento climatico non è un problema esclusivamente ambientale, deve essere inteso in tutte le sue dimensioni, anche come minaccia alla sicurezza. Secondo te si può intendere come un “moltiplicatore del rischio”?
Purtroppo sì. Viviamo già una gravissima situazione di crisi finanziaria ed economica e, nel contempo, ci troviamo in una situazione di crisi ambientale che non fa che aggravarsi quotidianamente perché il nostro intervento continuo è ormai diventato l’elemento più rilevante del cosiddetto Global Environmental Change (Gec). Oggi ci troviamo in una situazione di deficit ecologico sia rispetto alle capacità rigenerative dei sistemi naturali cui attingiamo per trarre le risorse bioproduttive sia rispetto alle capacità ricettive dei nostri scarti, dei nostri rifiuti, siano essi solidi, liquidi o gassosi. I sistemi naturali sono sottoposti a grave pressione e dobbiamo tutti lavorare – in primis gli abitanti dei paesi ricchi che continuano a distruggere le risorse naturali di tanti paesi del mondo – per ridurre la nostra impronta ecologica. I cambiamenti climatici si intrecciano e amplificano i numerosi rischi che già stiamo attraversando.

Spesso le città sono accusate di contribuire in modo spropositato al cambiamento climatico, ma sappiamo anche che non c’è conflitto tra mondo urbanizzato e riduzione delle emissioni (in molte città convivono buona qualità della vita e livelli relativamente bassi di emissioni pro capite). Quindi dove sta il problema? Forse nei modelli di consumo di gruppi sociali con redditi medio-alti nelle nazioni più ricche, compresi coloro che vivono fuori dalle città?
Purtroppo i sistemi urbani sono dei grandi consumatori di risorse e produttori di rifiuti. Rappresentano una voce fondamentale dei metabolismi sociali che producono una forte incidenza sui metabolismi dei sistemi naturali. Contemporaneamente è evidente che gli stili di vita ad alto consumo, sia in città sia fuori (anche se ormai moltissime aree del pianeta sono sottoposte a uno straordinario sprawling urbano), costituiscono il vero problema per il nostro immediato futuro. E non solo dei paesi dell’area Ocse, ma anche di una parte della popolazione di alcuni paesi al mondo (una ventina, tra cui Cina e India) che ormai si possono definire a tutti gli effetti new consumers (nuovi consumatori). È molto difficile avviare politiche di sostenibilità mantenendo questi alti livelli di consumo. Esiste una “quota di natura” individuale per ogni risorsa che non dovrebbe essere sorpassata.

L’Onu dichiara che i cambiamenti climatici stanno creando milioni di “mestieri verdi” in settori che vanno dall’energia solare ai biocarburanti. Pensi che i “green job” potranno costituire un elemento trainante dello sviluppo mentre il mondo affronta la sfida dell’economia globale?
È evidente che alla crisi finanziaria ed economica si deve rispondere con una mentalità completamente diversa da quella che ha prodotto la crisi stessa. E certamente un modo per rispondere è quello di investire nella filiera formazione-ricerca-innovazione-nuove tecnologie per impostare un’economia a carbonio zero, fuori dalla dipendenza dei combustibili fossili e per modelli industriali che siano sempre di più “imitatori della natura”, basati su una vera e propria ecologia industriale. Il grande programma dell’Unep sulla Green Development Initiative mira proprio a questo.

I negoziati sul clima sono sempre stati caratterizzati dall’antiquata e semplicistica divisione delle nazioni in due categorie: paesi “industrializzati” e “in via di sviluppo”. Questa dicotomia non consente più di coprire esaurientemente l’eterogeneo panorama di livelli di responsabilità (emissioni passate e presenti, inclusa una valutazione su base pro capite) e capacità (reddito e ricchezza, nazionale e pro capite) che contraddistingue le quasi 200 nazioni del mondo. In particolare, non permette di distinguere i paesi con una forte economia di transizione e rapida industrializzazione, come Cina e India, da quelli in cui la crescita procede più a rilento, ancora ben lungi dal contribuire in misura significativa all’accumulo dei gas serra nell’atmosfera. Come ci stiamo preparando al meeting che si terrà a Copenaghen nel dicembre 2009?
Certamente il quadro dei paesi emettitori di carbonio è andato rapidamente mutando negli ultimi anni, vedendo l’exploit di paesi di nuova industrializzazione e di forte crescita economica come, ad esempio, Cina e India. Ma ciò non toglie nulla a uno dei principi fondamentali della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici che, giustamente, richiama il principio della responsabilità comune ma differenziata. Siamo tutti responsabili della pressione e dei danni inferti ai sistemi naturali ma esistono responsabilità storiche, differenziate, di chi ha cominciato per primo e ha continuato a inquinare non modificando i propri stili di vita anzi continuando a inquinare e “saccheggiare” le risorse anche di altri paesi, e di chi si sta affacciando a livelli di consumo simili ai nostri in questi anni. Non solo, ma se prendiamo le emissioni pro capite e non quelle cumulative delle singole nazioni ci rendiamo conto che la differenza tra paesi come gli Usa e la Cina sono ancora immense. La Conferenza delle Parti della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici di Copenaghen del prossimo dicembre costituisce una tappa fondamentale per tutta l’umanità. Solo se riusciremo a individuare significativi tagli delle emissioni da qui al 2020 (almeno del 30-40%) e al 2050 (almeno dell’80%) riusciremo ad affrontare con maggiore serietà il futuro. La conferma del pacchetto 20-20-20 dell’Unione europea e la nuova leadership statunitense fanno ben sperare per una positiva conclusione del vertice, ma le insidie attorno a questa sfida sono ancora moltissime.