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In un mondo sempre più caldo. Conversazione con Gianfranco Bologna, Wwf Italia di Paola Fraschini
Rifiuti made in Italy. Intervista a Stefano Ciafani di Anna Satolli
High-tech trash, il romanzo inchiesta. Intervista a M. Carlotto e F. Abate di Emiliano Angelelli
Energie rinnovabili: non solo rose e fiori. Intervista a Leonardo Filippucci di Simona Faccioli
Il mare dell'illegalità di Antonio Pergolizzi

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High-tech trash, il romanzo inchiesta
Intervista a M. Carlotto e F. Abate
di Emiliano Angelelli*

Nei giorni in cui Greenpeace svela a tutto il mondo i meccanismi assurdi attraverso i quali si muove il traffico illegale di rifiuti elettronici tra il nord e il sud del mondo, esce L’albero dei microchip, il nuovo VerdeNero firmato da Massimo Carlotto e Francesco Abate. È un avvincente romanzo inchiesta sul traffico di high-tech trash tra Italia e Liberia, un noir mozzafiato sulle rotte dello smaltimento illegale dei rifiuti elettronici, tra servizi corrotti, guerre e attentati alla salute del pianeta.

Partiamo dal titolo: L’albero dei microchip. A chi è venuta l’idea e perché?
Massimo Carlotto: L’idea è di Michele Ledda, uno dei Mama Sabot, il collettivo di scrittori che ha partecipato a questo progetto. Il titolo suggerisce l’immagine che potrebbe avere un bambino di un campo "seminato" di spazzatura elettronica.

Il traffico dei rifiuti elettronici è uno dei business più lucrosi delle ecomafie e riflette in modo perfetto i rapporti tra nord e sud del mondo. Non solo la produzione industriale viene decentrata, ma anche lo smaltimento dei rifiuti. Come vi siete trovati a trattare un argomento così complesso?
M.C.: Lo abbiamo scelto tra molti altri (purtroppo l’Italia è profondamente segnata dall’attività delle ecomafie) perché ci permetteva di parlare di Africa, una parte del mondo che fa meno notizia. In questo paese sempre più razzista si alimentano ignoranza e rimozione nei confronti di un intero continente afflitto da un sottosviluppo a cui noi stessi lo abbiamo condannato. Inoltre ci sembrava importante raccontare il ruolo italiano nel disastro della Liberia: gli affari sporchi, i traffici, le ruberie, il saccheggio delle materie prime.
Francesco Abate: Come sempre ci siamo posti davanti all’argomento con molta umiltà e curiosità, con la voglia di informarci in maniera completa e sapere di più di quanto già non sapessimo, spinti dalla necessità di capire in maniera più specifica. Insomma, abbiamo fatto un lavoro di approfondimento per poter poi raccontare ai lettori ciò che nella nostra ricerca abbiamo scoperto.

"La narrativa d’inchiesta nasce dalla necessità di risolvere un problema" diceva Carlotto nel corso di un dibattito alla fiera del libro di Roma dello scorso dicembre. "Sui giornali e sulle riviste non c’è più spazio per una certa saggistica scomoda". In questo contesto quanto è importante che esista un filone di letteratura come quello del romanzo-inchiesta, dove si colloca anche VerdeNero?
M.C.: È davvero importante perché permette di tenere sempre viva l’attenzione su temi scottanti, come quello delle ecomafie. Stampa e televisione si limitano a riportare le notizie senza analizzare il prima e il dopo. Invece il romanzo-inchiesta, oltre a informare, racconta i meccanismi criminali nel loro complesso con l’obiettivo di fornire strumenti utili al lettore.
F.A.: Personalmente credo nel ruolo sociale della letteratura, nella sua capacità di comunicare informazioni in maniera diversa rispetto ai classici media e, per di più, spesso a un pubblico diverso. Mi spiego: a volte – numerosi romanzi di questi ultimi anni ne sono buoni testimoni – la forza della narrazione arriva là dove a volte purtroppo, lo dico da giornalista, non riescono ad arrivare gli articoli dei quotidiani o i servizi tv. Inoltre, si ha la possibilità di giocare sulla fascinazione della forma-romanzo, sul suo potere di trascinare il lettore dentro una vicenda con più forza rispetto, ad esempio, a una fredda relazione statistica che afferma la stessa cosa. Rimango convinto, però, che il romanzo non debba sostituirsi al giornalismo d’inchiesta, ma piuttosto possa affiancarlo. Il guaio è che in Italia il giornalismo d’inchiesta non vive un momento brillante.

Questo fa sì che spesso siano gli stessi cittadini o comitati locali a sollecitarvi rispetto ad argomenti di cui non si parla o non si vuole parlare per una serie di motivi. Che cosa significa per uno scrittore scrivere in un contesto politico-sociale del genere? Ci si sente investiti in qualche modo di una responsabilità che va al di là della semplice divulgazione culturale?
M.C.: Più che altro ci si sente parte di quell’Italia che vuol capire e reagire. In qualche modo siamo al servizio dei nostri lettori, rifiutando la dotta estraneità dello scrittore dalla realtà. Noi vogliamo raccontarne i lati oscuri non solo per informare in modo "altro", ma per contribuire a costruire un’alternativa.
F.A.: Ci si sente sempre investiti di una responsabilità quando chiedi, al di là dell’argomento che tratti nel tuo libro, a un lettore di darti fiducia e leggere ciò che hai scritto. Tanto più questo accade quando a fare da traccia principale al tuo racconto c’è una storia con evidenti risvolti di cronaca, con lampanti riferimenti a una realtà scomoda. Quando poi si fa i portatori di cattive notizie, come nel caso de L’albero dei microchip, allora la responsabilità aumenta ancora di più.

Non è la prima volta che scrivete un romanzo a quattro mani, così come per VerdeNero non è il primo episodio del genere (era già accaduto con Bloody Mary di Vichi e Gori). Come è nata questa forma di collaborazione? E come ci si trova a scrivere un romanzo collettivamente?
M.C.: L’albero dei microchip è stato scritto con il contributo complessivo di sei persone. Scrivere collettivamente questo tipo di opere significa lavorare a un’inchiesta e poi trasformarla in un romanzo senza smarrirne il senso e seminando i dati raccolti nella narrazione. La collaborazione nasce, oltre che dal piacere di lavorare assieme, dalla necessità di affrontare indagini complesse che il singolo scrittore non sarebbe in grado di portare a termine.
F.A.: La scrittura a più mani è un gioco fatto di sapienti equilibri che con Carlotto abbiamo sviluppato negli anni come diretta conseguenza e derivazione naturale di una profonda amicizia e una grande stima professionale. Insomma, alla base ci deve essere un sentire comune che poggia necessariamente non solo su valori letterari. Un romanzo collettivo è poi un lavoro delicato anche sul piano strettamente tecnico, ma basta darsi delle regole e non ci saranno né intoppi né incomprensioni. Come mai ci sono stati, basti pensare che questo è il quarto libro che ci vede insieme.

Un’ultima domanda. Vi riconoscete nella "New Italian Epic"? E se sì perché?
M.C.: Io ne faccio parte dopo aver pubblicato Cristiani di Allah. Il romanzo storico (e non solo) come metafora del presente in cui viviamo è un’altra formula narrativa di grande potenza e valenza sociale.
F.A.: Wu Ming in New Italian Epic definisce il mio ultimo romanzo single, Così si dice, una scrittura di genere che preme per divenire altro e ne dà segnale. Credo sia la definizione migliore che si potesse dare al mio attuale cammino in solitario. Quando la mia penna si incrocia con quella di Massimo allora, invece, siamo in pieno “noir mediterraneo”.

*Direttore blog VerdeNero.