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Il mare dell'illegalità di Antonio Pergolizzi

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Il mare dell’illegalità
di Antonio Pergolizzi

I predoni dell’ambiente non si limitano alla terra ferma, nemmeno il mare li arresta. Pescherecci solcano i nostri mari come navi di pirati, per fare razzie, rastrellano e distruggono con le loro reti killer ogni forma di vita: desertificano i fondali, dove passano non cresce più niente. Pesca di frodo, si chiama. È un’attività che non solo minaccia la sopravvivenza degli ecosistemi marini, ma manda sul lastrico migliaia di pescatori onesti. È certo che una buona parte del pescato che arriva sulle nostre tavole è frutto di illegalità, anche se è difficile stimare in che percentuale. Il fatto che siamo tra i più aggressivi al mondo, in tema di pesca di frodo, è ben noto anche all’estero.
L’ennesima denuncia ufficiale è arrivata in questi giorni dalla Commissione europea. Si legge nel documento ufficiale: “La Commissione è al corrente che in Italia continua la pesca con reti da posta derivante illegali, perlopiù spadare. Dopo numerose ispezioni e richiami all’Italia, la Commissione ritiene che l’Italia abbia fallito nell’assolvimento dei suoi obblighi di controllo e di ispezione relativi al divieto di uso di reti da posta derivante illegali e che nei confronti degli autori degli illeciti sia stata adottata un’azione inadeguata”. Sempre sullo stesso tenore è la bocciatura che è arrivata dagli Stati Uniti. Il National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa), autorevole agenzia scientifica federale che si occupa di ambiente, in una comunicazione inviata al Congresso Usa ha denunciato il nostro paese per le attività illegali portate avanti da tanti, troppi, pescherecci: leggasi, spadare. È verosimile, inoltre, che Italia e Francia siano nel mirino delle autorità Usa a causa della pesca illegale al tonno rosso. Il tonno rosso è gestito dall’International Commission for the Conservation of the Atlantic Tunas (Iccat) il cui comitato scientifico ha stimato che le catture di questo animale sono il doppio della quota prevista e addirittura quattro volte la quota di “sicurezza” stimata dalla ricerca. Qualche settimana fa, a Chioggia, è stato scoperto un carico di 5 tonnellate di tonno rosso pescato illegalmente proveniente dalla Sicilia, con esemplari sotto la taglia minima (30 kg) e spacciati per “tonno pinna gialla”.

Venendo ai dati ufficiali rilevati nel nostro paese: nel solo 2007, le Capitanerie di Porto, insieme alle altre forze dell’ordine, hanno accertato ben 5.189 infrazioni per reati legati alla pesca di frodo, più di 14 al giorno, che fanno 5.129 tra arresti e denunce e 1.227 sequestri effettuati. È al Sud che i predoni del mare collezionano più reati: la Puglia (994), la Campania (980), la Sicilia (823), la Calabria (369) sono le regioni con le flottiglie fuorilegge più attive. Il principale strumento di saccheggio del mare sono le solite reti derivanti, meglio note come spadare, vietate in Europa dal primo gennaio 2002. I danni provocati sono irreparabili: ogni anno almeno 300.000 esemplari di specie viventi tra testuggini, delfini, capodogli e altri cetacei, rimangono impigliati all’interno delle reti non selettive. Si tratta di reti che dovrebbero già essere state distrutte e confinate ai libri di storia, grazie ai tanti milioni di euro spesi dall’Unione europea per “indennizzare” i pescatori che ne possedevano. Ma una volta intascato l’indennizzo, i più hanno continuato come nulla fosse. Molto spesso sono gli stessi che hanno ottenuto i finanziamenti per la restituzione delle spadare a essere fermati con le mani nel sacco, anzi, con il pesce nelle reti killer. Altrettanto micidiali sono i “datterari” che spogliano gli scogli a caccia dei famosi datteri di mare, molluschi che spesso finiscono nei piatti dei ristoranti, ma la cui pesca in Italia è vietata. Le ragioni del divieto stanno nella tecnica utilizzata che frantuma le rocce dove il dattero è attaccato, comportando la distruzione delle scogliere e la desertificazione dei fondali per decenni.

Le mafie non stanno certo a guardare. Al Sud c’è il dominio della criminalità organizzata nell’intero comparto ittico, con il controllo di flotte e soprattutto dei mercati che rispondono agli interessi dei clan: dalla Sicilia alla Puglia, dalla Campania alla Calabria. Ma la storia non cambia molto al Centro-Nord, come a Milano, a Genova, a Roma e dintorni. Nelle pescherie di mezza Italia si sente il puzzo dei clan. Nulla di strano se i prezzi salgono alle stelle. Cosa si vende, quando e a che prezzo spesso lo decidono loro, i clan. E non potrebbe essere diversamente, in presenza di un business favoloso, stimato intorno ai 2 miliardi di euro l’anno. Anche il Rapporto Sos Impresa della Confesercenti del dicembre scorso ne dà ampia documentazione.
In Calabria, ad esempio, è il clan Muto che la fa da padrone. Il suo capo è soprannominato, non a caso, il “re del pesce”. La Commissione Antimafia nella sua relazione conclusiva del 18 gennaio 2006 denuncia che “la cosca di Francesco Muto, insieme alle famiglie alleate dei ‘Polillo’ di Cetraro e degli ‘Stummo-Valente’ di Scalea e Belvedere Marittimo, controlla le attività connesse alla pesca e alla commercializzazione dei prodotti ittici nelle zone di Paola e Scalea”. La stessa relazione, nella parte che si occupa invece dei clan campani attivi nella zona di Pozzuoli, in provincia di Napoli, spiega che la camorra ha utilizzato il suo potere di controllo sul territorio “per conseguire un ruolo chiave nella gestione del mercato ittico, instaurando un generalizzato sistema di estorsioni e acquisendo interessi economici diretti e indiretti nella commercializzazione dei prodotti ittici”. Il clan La Torre, originario della provincia di Caserta, ha pensato in grande e nei suoi “investimenti in Gran Bretagna si è inserito a pieno titolo nell’import-export del pesce”: lo dice la Direzione Investigativa Antimafia. E poi ci sono gli interessi della cosca mafiosa Mazzei a gestire i mercati ittici di Catania e Porto Palo (Rg).