In questo numero

Tra gli anticorpi della Terra di Marco Moro
Quel movimento senza nome di Diego Tavazzi
Il mattone in primo piano. Intervista ad Adriano Paolella di Paola Fraschini
VerdeNero Inchieste di Anna Satolli
Il Senato ha deciso: i ghiacciai non si stanno sciogliendo di Ilaria Di Bella
La regola dell'efficienza energetica di Simona Faccioli
Castelli di sabbia di Antonio Pergolizzi

contatti

iscriviti

Il mattone in primo piano.
Intervista ad Adriano Paolella*
di Paola Fraschini


Il settore edilizio può incidere negativamente sulla qualità dell’ambiente e della vita a causa della scarsa qualità del costruito, per l’indifferenza riservata agli habitat sociali e naturali, per la quantità smodata di suolo consumato, per l’enorme produzione di emissioni derivante dall’uso di materiali e tecniche inappropriate. Ma le ripercussioni negative di un cattivo modo di costruire possono arrivare ancora più lontano. Si pensi agli effetti del terremoto del 6 aprile sull’ospedale di una città come L’Aquila: crollato oltre che per il sisma anche grazie alle speculazioni, ai condoni e alle tangenti per gli appalti. L’ospedale San Salvatore (quello inaugurato nel 2000, non quello ospitato nel convento dell’800 che non riporta neppure un graffio…) e la Casa dello studente sono diventati i simboli del terremoto d’Abruzzo, sono i simboli di un modo di costruire che può fare più morti di una catastrofe naturale. E l’interrogativo che tutti ci poniamo è: bastava costruirli bene? Ma bene come? Iniziamo così la nostra chiacchierata con l’architetto Adriano Paolella (che per tutto il mese di maggio risponderà su Repubblica.it ai quesiti che i lettori vorranno porre in merito alla ricostruzione sostenibile nelle aree colpite dal terremoto in Abruzzo).

Partiamo da un’emergenza, il terremoto in Abruzzo, quali soluzioni intelligenti offre il mondo dell’architettura per affrontare la ricostruzione in zona sismica di una città come L’Aquila?
Per quanto riguarda gli interventi post-terremoto, poche cose: ricostruire gli edifici pre-bellici nelle dimensioni e nelle forme originali, riconfigurare le strutture post-belliche a qualità energetiche e compositive più adeguate negli stessi luoghi. Non concentrare gli interventi nelle mani delle grandi imprese di costruzione ma lasciare spazio all’azione dei cittadini al fine di ridurre gli interessi economici e rendere possibile la diretta relazione tra l’individuo e la propria abitazione. Nessuna nuova fondazione, nessuna speculazione, nessuna proiezione in “futurismi” balordi, immotivati e principalmente non richiesti.

Sta per uscire in libreria Architettura sostenibile e laterizio, il suo ultimo libro. Dunque anche il mattone, simbolo del costruire nei climi mediterranei e materiale che determina il volto del paesaggio costruito in Italia, è naturale ed ecologico?
Parlare di materiale naturale ed ecologico in assoluto appare inadeguato. Sicuramente il laterizio ha dei caratteri che lo rendono una soluzione praticabile per aumentare l’efficienza energetica di un edificio essendo materiali con un limitato contenuto di energia incorporata e impatto in fase di costruzione minore di molti altri materiali in uso. È dunque un carattere relativo e non assoluto che deve essere confermato da un comportamento progettuale coerente con obiettivi di effettiva sostenibilità. Quali sono le sue caratteristiche principali e le sue potenzialità? Il laterizio è un materiale che si presta a realizzazioni collegate con i luoghi, in quanto è un prodotto locale; a mantenere una continuità con l’unità paesaggistica in cui si situa; a raggiungere livelli di elevata efficienza energetica; a favorire soluzioni bioclimatiche; a concretizzare sistemi tecnologici e formali diversi; a permettere il lavoro di tecnici locali.

Perché un edificio si possa dire sostenibile può essere sufficiente ridurre al minimo il consumo energetico? Il gioco è così facile?
Assolutamente no. La riduzione del consumi è condizione necessaria ma non sufficiente per potere caratterizzare ecologicamente un edificio. La localizzazione, il rapporto con la morfologia e con l’intorno, la qualità dei materiali, il rapporto con la comunità locale, sono elementi che hanno un peso equivalente a quello delle strategie bioclimatiche nella definizione della sostenibilità di un edificio. E, prima tra tutti, è la verifica della necessità della costruzione e delle sue dimensioni: un edificio non strettamente necessario o con dimensioni superiori a quelle di uso, visto il livello di alterazione ambientale del pianeta e di sotto utilizzazione del patrimonio esistente, non può considerarsi sostenibile.

A suo parere c’è spazio nel panorama odierno per una cultura diffusa del costruire sostenibile? Esiste la possibilità di diffondere nelle pratiche costruttive correnti un’idea di qualità in sintonia con lo sviluppo sostenibile? Quali sono gli ostacoli?
La presenza di interessi economici specifici talvolta molto forti è un fattore limitante ma a cui non può essere addebitato completamente il ridotto impegno in questo campo. Il problema è culturale perché spesso i progettisti operano scelte senza essere consapevoli di cosa queste comportano a livello ambientale e sociale. Questa superficialità non solo conduce a favorire l’uso di termini accattivanti e soluzioni manualistiche e comportamenti millantatori attraverso i quali si autodefiniscono impropriamente ecologiche le costruzioni ma contemporaneamente danneggia chi opera con coerenza. Tale condizione è sostenuta da molte riviste specializzate che tendono a rispondere alla domanda di informazioni specifiche piuttosto che proponendo edifici effettivamente sostenibili presentando opere di progettisti noti con titoli e descrizioni che propugnano una ecologicità inesistente. Ma questa superficialità è resa possibile anche grazie alla distanza dalla cultura del costruire in cui si vuole mantenere la comunità impedendole una partecipazione consapevole, attiva e diretta a favore di una alienazione nelle scelte dei tecnici e dei progettisti.

Chiudiamo sull’attualità. Cosa pensa del Piano casa?
Il Piano casa nella sua prima stesura è stato il maggiore rischio che la cultura del nostro paese abbia corso dal dopo guerra ad oggi. Nell’attuale impostazione è una brutta legge che, sperando – come spesso avviene – nella sua non integrale applicazione, lascia buone possibilità di sopravvivenza all’identità culturale del paese. Certo effetti negativi sono prevedibili e in particolare quelli connessi al diffuso tessuto di edifici mono-bifamiliari post-bellici che già hanno occupato vasti territori. Se così fosse il danno sarebbe “limitato” a un aumento di destrutturazione del paesaggio e dell’ambiente con la speranza che in un prossimo futuro ci siano energie e desiderio di recupero naturalistico e paesaggistico. Al contrario di come si sta procedendo potrebbe essere interessante in edilizia stimolare il combinato intervento finalizzato all’aumento dell’efficienza e all’autoproduzione energetica, alla sicurezza sismica, alla manutenzione straordinaria dell’involucro. Se queste azioni fossero connesse in un unico intervento e se si dessero delle indicazioni tecniche e formali per tali adeguamenti si potrebbe puntare a consolidare il settore produttivo ma contemporaneamente a migliorare la qualità ambientale, energetica, strutturale e formale del costruito.

* Architetto, esperto di pianificazione e progettazione ambientale e docente di tecnologia presso la Facoltà di Architettura di Reggio Calabria.