In questo numero

Sfogliando margherite di Marco Moro
Benedetta irrequietezza di Diego Tavazzi
L'inchiesta in salsa verde di Emiliano Angelelli
Vite spericolate. Intervista a Patrick Fogli a cura della redazione
Macello di mafia di Maurita Cardona
Il ritorno del nucleare in Italia di Ilaria Di Bella
Giù l'ecomostro di Palmaria di Antonio Pergolizzi

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L'inchiesta in salsa verde
di Emiliano Angelelli*

È appena nata VerdeNero Inchieste: la nuova collana di giornalismo ambientale di Edizioni Ambiente, presentata in anteprima due settimane fa nel corso della Fiera del libro di Torino.
Carte false. L’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a cura di Roberto Scardova, La città delle nuvole. Viaggio nel territorio più inquinato d’Europa, l’inchiesta su Taranto di Carlo Vulpio e L’Italia chiamò. Uranio impoverito: i soldati denunciano di Leonardo Brogioni, Angelo Miotto e Matteo Scanni: sono questi i primi tre titoli comparsi in libreria il 13 maggio scorso. E proprio in occasione del Salone del libro di Torino abbiamo incontrato Roberto Scardova, Carlo Vulpio e Matteo Scanni, con i quali abbiamo realizzato le tre interviste che seguono.

Carte false: Roberto Scardova
Com’è nata l’idea di ricostruire insieme a VerdeNero una vicenda intricata come quella di Ilaria Alpi?
L’Associazione intitolata a Ilaria Alpi, che si è costituita cinque anni fa a Riccione, promuove ogni anno iniziative in memoria di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e intende attirare l’attenzione della magistratura affinché venga portata a compimento l’inchiesta sulla loro morte, avvenuta a Mogadiscio nel 1994.
Da allora, infatti, non siamo in grado di sapere né chi ha ucciso la giornalista italiana e il cineoperatore croato né chi abbia ordinato questo delitto, che è chiaramente un delitto commissionato per impedire loro di riferire quanto avevano visto e documentato in Somalia riguardo al traffico di armi e di rifiuti tossici.
Quindici anni dopo non si tratta tanto di fare giustizia. Il problema è sapere che chi conduceva quei traffici in Somalia, e può aver ordinato l’omicidio di Ilaria, ancora oggi traffica e ricava profitti da una situazione in cui è solo il popolo somalo a pagare le conseguenze.

Recentemente la magistratura ha rifiutato l’archiviazione del caso. Lo possiamo interpretare come un segnale positivo in vista di nuove indagini?
Spero di sì. Certamente la decisione del giudice per le indagini preliminari, Emanuele Cersosimo, testimonia che intanto le indagini fino ad oggi sono state fatte male. Nei quindici anni che sono passati la magistratura non è riuscita ad accertare nulla che possa essere solidamente legato al delitto. Quindi bisogna andare avanti se si vuole conoscere la verità. Cersosimo chiede che siano fatte nuove inchieste e ha ordinato 26 accertamenti nuovi da parte della procura di Roma e per questo è stato incaricato un nuovo sostituto procuratore. Una delle cose più clamorose è che le analisi del Dna hanno detto che sulla Toyota su cui sarebbero stati assassinati i due ragazzi non c’è il sangue di Ilaria. Questo apre uno scenario incredibile. Forse tutto quello che abbiamo saputo fino a oggi è falso e viene da testimonianze e da carte false.

Carte false racconta di un traffico di armi, di rifiuti tossici e radioattivi. Un tema che oggi è di piena attualità visto che il Governo italiano è tornato a parlare di nucleare.
Devi tener presente che fino agli anni Novanta il traffico di rifiuti tossici non era considerato reato e quindi chi ha operato questi traffici l’ha potuto fare in barba a qualsiasi autorità di polizia. Sì, è vero. Abbiamo notizia di sostanze radioattive interrate in Somalia e l’idea di procurare nuova materia per nuovi traffici è terrificante. E per chi come me è stato tre volte a Chernobyl, anche solo l’idea che una cosa del genere possa accadere di nuovo vicino a noi, spaventa oltre ogni misura. Il traffico di sostanze radioattive purtroppo è all’ordine del giorno perché nessuno riesce a sostenere economicamente lo smaltimento legale di questo genere di rifiuti.

Il tuo contributo all’interno di Carte false si intitola “Un’inchiesta che non si doveva fare”…
L’inchiesta di Ilaria Alpi non si doveva fare perché le forze politiche al Governo in quel periodo non volevano che si facesse. E in effetti non è stata fatta né da Ilaria Alpi, che non l’ha potuta condurre a termine, né dalla magistratura né dalla Polizia né dai Carabinieri né dalla Guardia di finanza e neanche dai nostri servizi segreti che pure sapevano già tutto.

La città delle nuvole: Carlo Vulpio
Che ne pensi del Protocollo d’intesa tra la Regione Puglia e l’Ilva di Taranto per la riduzione delle emissioni di diossina?
I protocolli d’intesa sono degli accordi bilaterali fatti tra i vari governi regionali e l’acciaieria Ilva. Questi accordi li ha fatti, prima dell’attuale presidente Vendola, anche il suo predecessore Fitto, ma non hanno mai portato a nulla e non hanno cambiato l’attuale situazione d’inquinamento della città pugliese. Tutto ciò, fino a quando, nel dicembre 2008, non si è arrivati all’approvazione di una legge regionale sotto la presidenza Vendola; che sarebbe stata anche una buona legge qualora non fosse stata modificata tre mesi dopo dalla stessa maggioranza che l’aveva approvata, dopo un incontro a Palazzo Chigi tra Governo, sindacati, regioni, parti sociali, ma senza la partecipazione delle associazioni. La legge regionale, che doveva fissare il limite europeo per la diossina (0,4 nanogrammi per metro cubo), è stata svuotata di contenuto con un’altra legge regionale, chiamata Atto di interpretazione autentica, che prevede che i controlli non vengano fatti 24 ore su 24, ma a fasi alterne, ad esempio la mattina, ma non la notte, cioè quando gli impianti vanno a pieno regime e anche oltre. L’altro punto incriminato è quello relativo alla misurazione della diossina e dell’ossigeno. Perché se si varia il modo in cui si calcola il rapporto tra l’ossigeno e la diossina, la diluizione cambia e i risultati sono evidentemente alterati.
La diossina è un nemico subdolo che si accumula nel tempo. Però insieme alla diossina a Taranto ci sono gli idrocarburi policiclici aromatici, l’arsenico, il benzene, il benzopirene, tutte sostanze che l’associazione internazionale per la ricerca sul cancro giudica cancerogene e teratogene.

Ne La città delle nuvole si racconta di un bambino di Taranto a cui viene diagnosticato un tumore che solitamente colpisce i fumatori incalliti.
Sì, è vero. Si tratta di Silvio, colpito da una forma di tumore inedita per un bambino della sua età. L’ematologo autore della diagnosi, Patrizio Mazza, che lavora a Taranto da quindici anni, scopre che non si tratta di un tumore causato dal fumo, ma dagli effetti della diossina. E i genitori del bambino decidono così di andare a raccontare la loro storia in televisione.

E la reazione dei loro concittadini è sconcertante…
Queste persone sono state accusate di essere andate in tv per denaro. Fortunatamente la mamma di Silvio ha avuto una reazione molto coraggiosa e ha risposto che lo aveva fatto per il figlio, ma anche per tutti i tarantini, perché quasi ogni famiglia della città pugliese ha un malato di cancro in famiglia e molte volte si tratta di bambini, i soggetti più esposti a certe forme di leucemia.

Il Quartiere Tamburi è il simbolo della situazione di Taranto stretto tra l’acciaieria e il cimitero.
Ed è anche il simbolo di un modo di fare capitalismo e industria che risale al Paleolitico. Il Quartiere Tamburi esisteva prima dell’Italsider (poi Ilva) ed è stato aggredito dall’insediamento industriale come non accadeva neanche ai sobborghi inglesi della prima rivoluzione industriale. L’allora Italsider ha travolto tutto fregandosene dei piani regolatori e delle più elementari regole del buon senso.
Oggi il Quartiere Tamburi, per la sua vicinanza all’Ilva, è un perfetto esempio di città pakistana, perché solo nei paesi in via di sviluppo troviamo industrie così vicine ai centri abitati. Il fatto che il cimitero sia a ridosso del quartiere è naturalmente un caso, ma non è un caso che, negli ultimi anni, sia stato riempito di morti a un ritmo che può essere definito senza esagerazioni “di guerra”.

L’Italia chiamò: Matteo Scanni
L’Italia chiamò racconta l’inquinamento bellico provocato dall’uranio impoverito sulle forze armate impiegate in Bosnia, Kosovo e Iraq. Uno dei più gravi scandali degli ultimi vent’anni. Perché in Italia se ne parla così poco?

In effetti le forze armate e la politica hanno sempre fatto di tutto per tenere “bassa” l’attenzione su questo argomento. Non hanno mai dato spiegazioni soddisfacenti ai media, né tantomeno ai familiari delle vittime. Anche le conclusioni delle commissioni parlamentari che hanno indagato sull’uranio impoverito e quelle che invece si sono concentrate sugli aspetti medico-sanitari non hanno chiarito le responsabilità dei vertici dell’esercito, né gli effetti dell’esposizione all’uranio impoverito sul corpo umano. E il tema, col passare degli anni, è diventato un tabù, un’emergenza “silenziata” prima che si trasformasse in una questione di Stato. D’altra parte i vertici delle forze armate sanno che le cifre di cui si ragiona sono impressionanti: 2.500 militari ammalati e 176 morti sono numeri che da un certo punto di vista impongono understandment.
C’è una questione centrale che non ha mai ricevuto una risposta: se si conosceva la pericolosità dell’uranio impoverito perché nessuno ha pensato di proteggere i militari inviati nelle missioni internazionali? E di conseguenza, a chi spetta la responsabilità di tutti questi decessi? Capire come ha funzionato la catena di comando è fondamentale, ed è un punto che nel documentario abbiamo cercato di sviluppare. L’ultima commissione parlamentare che ha indagato sull’uranio impoverito ha incontrato notevoli difficoltà ad acquisire dallo Stato maggiore della difesa i documenti necessari alle indagini. La denuncia non è nostra, ma di Mauro Bulgarelli, un ex componente della stessa commissione. Più in generale direi che i fatti di cronaca che vedono coinvolti i vertici delle forze armate sono sempre stati materia sensibile, una trama difficile da indagare. Penso al caso di Ustica, per esempio.

I militari americani erano a conoscenza sin dal 1993 delle precauzioni necessarie da prendere a contatto con il materiale radioattivo utilizzato nella fabbricazione di queste armi, mentre i nostri soldati erano all’oscuro di tutto. I soldati, ma non i vertici delle forze armate. Perché hanno taciuto un fatto così importante?
L’Esercito statunitense ha condotto i primi esperimenti sui proiettili depleted uranium nel 1978, nel poligono di Eglin, in Florida, e nello stesso anno ha mandato in produzione i primi missili con testate arricchite. Tuttavia negli Stati Uniti il Dipartimento della difesa è corso ai ripari solo dopo la prima guerra del Golfo, quando tra i soldati si sono manifestati i sintomi di una malattia misteriosa e letale – poi classificata appunto come “Sindrome del Golfo” –, che ha fatto migliaia di morti. Non è stato però un passaggio immediato. Se nelle caserme americane sono arrivati audiovisivi e manuali che spiegavano come prevenire i rischi di una contaminazione è anche grazie all’impegno di alcune associazioni di cittadini ed ex militari – come la DU Citizens’ Network –, che hanno ottenuto la pubblicazione dei rapporti segreti della Difesa, dai quali emergeva chiaramente la pericolosità delle armi all’uranio impoverito.
L’impatto sui media è stato fortissimo e ha innescato nel paese un moto di reazione che ha portato alla predisposizione di una serie di protezioni e contromisure. In Italia i videotape addestrativi girati dagli americani sono arrivati, come in tutti gli altri paesi della Nato. Nessuno però li ha mai mostrati nelle nostre caserme. I soldati italiani sono morti per incuria. Per proteggerli sarebbero bastate tute schermanti, guanti e maschere con filtri. Ma i soldati sono partiti per la Somalia, i Balcani, l’Afghanistan e l’Iraq senza questo equipaggiamento. Quando hanno iniziato ad ammalarsi e morire, invece di integrare il loro guardaroba, si è fatto finta di niente. A quel punto, cominciare a proteggerli con indumenti adeguati sarebbe stata un’ammissione di responsabilità e avrebbe avuto effetti anche sul piano penale.

L’Italia chiamò è un’inchiesta che racconta soprattutto vicende umane, quelle dei soldati ammalatisi dopo le missioni. Si tratta di cifre da capogiro che però ancora non bastano per stabilire un nesso di casualità tra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgere di patologie tumorali. Com’è possibile?
Le commissioni medico-scientifiche dirette dal professor Franco Mandelli hanno stabilito che non è possibile stabilire un nesso causale tra l’esposizione all’inquinamento bellico e l’insorgenza della malattia nei soldati. E lo stesso ha concluso la prima commissione parlamentare insediata per indagare sul tema. Tuttavia nella relazione della seconda commissione parlamentare, datata febbraio 2008, si riconosce ai militari ammalati e alle loro famiglie il diritto di accedere comunque a indennizzi e ad avviare l’iter per il riconoscimento della causa di servizio.
Inoltre il 17 dicembre 2008 il Tribunale di Firenze ha condannato il ministero della Difesa a risarcire la somma di 545 mila euro al soldato Gianbattista Marica, affetto da un linfoma contratto durante l’operazione Ibis in Somalia. La sentenza è interessante perché l’impianto si basa sul mancato rispetto della legge 626 sulla sicurezza nei posti di lavoro. Semplificando, il ministero della Difesa, in quanto datore di lavoro, non avrebbe fornito ai suoi dipendenti – i soldati – le adeguate protezioni per operare in missione all’estero. Questo precedente aprirà probabilmente la strada a decine di altri risarcimenti.

*Direttore blog VerdeNero.