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Tutti i colori dell'energia “verde”. Intervista a Roberto Rizzo di Filippo Franchetto
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Tutti i colori dell'energia “verde”
Intervista a Roberto Rizzo
di Filippo Franchetto

Distese di turbine eoliche immerse in paesaggi suggestivi e una pervasiva presenza del colore o della parola “verde” caratterizzano - da qualche tempo in modo massiccio - le campagne pubblicitarie degli operatori del settore energetico. I messaggi rivolti a consumatori che si sa essere sempre più attenti ai temi ambientali toccano abilmente le corde più sensibili, come i bambini e il loro futuro. Cosa è successo? Semplice: oggi il mercato elettrico è completamente liberalizzato e non esiste più un monopolista di Stato; quindi, le aziende competono per conquistare nuovi clienti, sempre più spesso proponendo “energia verde”, che rappresenta una quota della domanda in forte e rapida crescita. Ma con quali fonti viene realmente prodotta l’energia “verde” che ci offrono operatori “storici” e new entry del mercato?
Roberto Rizzo* segue da molti anni, come giornalista e autore, l’evolversi del mercato e delle tecnologie per le energie rinnovabili. In Energia verde in Italia, con un linguaggio sempre accessibile chiarisce tutti gli aspetti della liberalizzazione del mercato dell’energia, ne descrive i meccanismi e gli attori, fornendo elementi di interpretazione di grande utilità in uno scenario che tocca da vicino la vita (e il portafoglio) di ciascuno di noi.

Iniziamo dalla questione - molto sentita - del prezzo elevatissimo dell’energia elettrica in Italia, decisamente superiore alla media europea. Ma la liberalizzazione del mercato elettrico non doveva portare a una diminuzione delle tariffe? E quali sono le ragioni di una bolletta ancora troppo cara?
È vero: noi consumatori italiani paghiamo l’energia elettrica più cara d’Europa. Le famiglie in media oltre 16 centesimi di euro al kWh contro una media europea inferiore a 12 centesimi. La prima ragione è da ricercare nella modalità con cui viene calcolato il prezzo dell’energia sulla borsa elettrica italiana, che privilegia i prezzi più elevati del kWh scambiato e non incentiva l’efficienza soprattutto nel Centro-Sud e in Sicilia. In secondo luogo, ci sono i costi “impropri”, cioè non direttamente legati alla produzione di elettricità ma che vengono addebitati in bolletta. Pensiamo alle “fonti assimilate”, come scarti di raffineria, bitume e rifiuti, che pesano per oltre 10 euro l’anno sulla bolletta di una famiglia con consumi medi, o i costi per la chiusura del ciclo nucleare italiano (oltre 5 euro l’anno). Un ulteriore problema è la scarsa concorrenza tra gli operatori. Enel non è più monopolista ma mantiene ugualmente una posizione dominante nella produzione, distribuzione e vendita dell’elettricità. Non ho nulla contro questa o quella azienda, ma la realtà dei fatti è che il mercato è caratterizzato da una scarsa concorrenza. È vero che la situazione sta migliorando, ma molto lentamente e ci vorranno diversi anni prima che si possa parlare di un mercato realmente liberalizzato e concorrenziale. C’è infine il fatto che la produzione elettrica italiana si basa pesantemente sulle fonti fossili, il cui prezzo ha avuto grosse oscillazioni verso l’alto negli ultimi anni. La soluzione non è certo il nucleare: si passerebbe dalla padella del petrolio alla brace dell’uranio.

In questi dieci anni di mercato elettrico liberalizzato (dopo il decreto Bersani del 1999), quali sono stati i principali benefici per consumatori e per il sistema paese?
Per il consumatore il beneficio maggiore consiste nella possibilità di scelta del proprio fornitore in base a criteri economici e anche etici e ambientali. Un vantaggio limitato da due fattori: per prima cosa la differenza tra le diverse offerte di elettricità sul mercato libero corrisponde grosso modo a qualche decina di euro l’anno e, secondo, diverse aziende elettriche non sono sufficientemente trasparenti sul loro mix elettrico e sull’impatto ambientale delle proprie attività industriali in Italia e all’estero. Al paese servirebbero scelte chiare per favorire la produzione di energia da rinnovabili, l’introduzione della regola secondo cui “chi inquina paga”, una rete adeguata a ricevere nuova potenza da impianti eolici o impianti fotovoltaici diffusi sul territorio, la garanzia del “diritto al Sole” per tutti, un quadro legislativo che tuteli maggiormente e sul serio i diritti dei consumatori. Tutto questo però non può essere delegato alle aziende private e alla liberalizzazione: si tratta di scelte politiche che, purtroppo, ancora non sono state fatte con la decisione dovuta.

Leggendo il suo libro, si scopre che “l’energia verde” certificata e offerta dalle aziende, proviene quasi esclusivamente da grandi centrali idroelettriche, in funzione da molti decenni. Invece le nuove rinnovabili, come solare ed eolico, hanno un peso ancora marginale. Ma quindi quando acquistiamo energia verde, facciamo davvero del bene all’ambiente? E quanto possiamo contribuire, con le nostre scelte, allo sviluppo delle fonti rinnovabili?
Chi sottoscrive un’offerta di energia verde credendo di acquistare elettricità prodotta da nuove fonti rinnovabili, come eolico e solare, rimane deluso. Richiedere energia verde significa però lanciare un messaggio di attenzione per queste fonti: quanto più cresce il numero di clienti che vogliono consumare energia pulita, tanto più le aziende ne dovranno tenere conto e saranno obbligate a offrirla sul mercato. È la filosofia per cui non si è mai solo consumatori di un bene ma, acquistandolo, se ne diventa anche produttori perché si investe nella filiera. C’è poi il fatto che diverse aziende che propongono energia certificata investono il sovrapprezzo in progetti a fonti rinnovabili, creando un circolo virtuoso (questo accade in ogni caso con parte dei proventi di rilascio del marchio “100% energia verde”). Una buona idea è quella di aderire a un gruppo di acquisto solidale (GAS) di energia verde sul mercato liberalizzato. Il modo migliore per fare del bene all’ambiente rimane comunque quello di consumare in maniera efficiente l’energia, evitare gli sprechi e installare a casa impianti a fonti rinnovabili, come solare, mini-eolico, geotermico, biomasse, sfruttando gli incentivi statali e locali esistenti.

Si sente spesso il ritornello secondo cui il ritorno al nucleare permetterebbe agli italiani di pagare bollette elettriche meno salate. Qual è il suo punto di vista sulla questione?
Il nucleare farà lievitare le nostre bollette sul breve come sul medio e lungo periodo. Per rendere il nucleare un pezzo non trascurabile della produzione nazionale occorrerebbe ricostruire praticamente da zero tutta la filiera: dieci nuove centrali, per una potenza totale compresa tra 10.000 e 15.000 MW, richiederebbero tra i 30 e i 50 miliardi di euro di investimenti in larga parte pubblici (nel mondo nessuna centrale nucleare è mai stata costruita senza finanziamenti pubblici diretti o indiretti), senza dimenticare gli impianti di produzione del combustibile e il deposito per lo smaltimento delle scorie. Non abbiamo bisogno di nucleare, perché oggi esistono alternative mature e affidabili: non ci sono più limiti di carattere economico e tecnologico alla diffusione delle rinnovabili di piccola taglia, come fotovoltaico e micro/mini-eolico, o di grossa taglia, come centrali termosolari a concentrazione e parchi eolici. È questo il nostro futuro. Il nucleare rappresenterebbe un irragionevole ritorno al passato e lo dice una persona come me che ha avuto la fortuna di lavorare come ricercatore nel più grande centro di ricerca al mondo di fisica nucleare e subnucleare, il CERN di Ginevra.

* Giornalista esperto per i temi energetici, coordina le riviste FV-Fotovoltaici e Wind Energy.