In questo numero

L'economia degli eco-distratti di Marco Moro
Fotovoltaico negli edifici. Intervista ad Alessandra Scognamiglio e Paola Bosisio di Filippo Franchetto
La guerra senza volto alla conquista delle risorse. Intervista a Maso Notarianni di Emiliano Angelelli
I negazionisti climatici. Intervista a Stefano Caserini di Diego Tavazzi
Fame nel mondo. Intervista a Gianni Tamino di Paola Fraschini
Progettare la sostenibilità. Intervista a Jana Revedin di Anna Satolli
Relitti fantasma di Antonio Pergolizzi
Via libera alla privatizzazione dell'acqua di Ilaria Di Bella

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L'economia degli eco-distratti
di Marco Moro

E va bene, cedo al fascino perverso delle classifiche, alla semplificazione che fa tanto notizia. Cedo perché quella pubblicata dal Sunday Times ormai qualche mese fa, pur prendendola con le dovute cautele, fa riflettere: è la classifica dei primi 100 eco-ricchi al mondo, ossia le persone che hanno investito di più nella green economy (e non si tratta solo di imprenditori, quindi). Scriveva il Times “I più ricchi del mondo stanno investendo sul 'verde' come mai era successo prima. […] l’entusiasmo tra le persone più facoltose del pianeta per gli investimenti in settori come l’auto elettrica, l’energia solare e il geotermico è immune dalla recessione”.
In testa ci sono Warren Buffett, Bill Gates e Ingvar Kamprad (Mr. IKEA) e di ognuno di loro si specifica l’ambito principale di investimento (rispettivamente: energia eolica, biocombustibili ed energia rinnovabile in genere). Naturalmente in questi casi si cerca se c’è un italiano, almeno uno nei primi cento e altrettanto naturalmente non lo si trova. Italia e Russia (proprio l’amico Putin, sarà un caso?), uniche tra le economie del G8, brillano per l’assenza dei loro rappresentanti, mentre ci sono investitori svizzeri, sudafricani, taiwanesi, cinesi, australiani ecc. Tra questi eco-ricchi, si aggiunge, molti degli americani non investono direttamente nel business, ma preferiscono finanziare l’università e la ricerca cercando di orientarla verso i temi chiave dello sviluppo sostenibile e della green economy. Come da noi, uguale uguale.
Anche se, a ben vedere, la frazione di queste enormi ricchezze investita nel green risulta a volte minima rispetto all’ammontare complessivo dei patrimoni, leggere quella classifica senza pensarci troppo trasmette un’immagine incoraggiante della finanza internazionale. Ma si tratta di un’immagine, appunto. La lettura degli articoli di questo numero di Puntosostenibile, uno dei più “densi” mai realizzati in relazione alla complessità e all’importanza dei temi toccati, mostra molto bene l’altra faccia del business, quella in cui, presumibilmente, è spesso investita buona parte delle ricchezze anche dei cosiddetti eco-paperoni.
La faccia brutale (o semplicemente, la faccia più vera) ha un nome che ricorre: “multinazionali”, le corporation transnazionali, aziende più potenti di molte nazioni della Terra. Le troviamo chiamate in causa nell’intervista a Gianni Tamino (sull’agricoltura, in particolare dove si parla di bio-pirateria), nella rubrica di Ilaria Di Bella (sulla privatizzazione dell’acqua). E seppure non citate direttamente nell’intervista a Maso Notarianni, le multinazionali e la finanza mondiale sono fattori presenti in numerosi tra gli scenari di conflitto, reali e potenziali, descritti in Guerra alla Terra. Perfino rispetto al dibattito sul cambiamento climatico se ne parla, nell’intervista a Stefano Caserini: l’attività di lobbying tesa a minimizzare e a disinformare è incessante. Nonostante i molti passi avanti compiuti, c’è chi continua a negare tanto che, è utile ricordarlo, il nostro Senato ha votato una mozione che sostanzialmente nega l’esistenza del fenomeno e soprattutto le sue origini antropiche. E se anche queste fossero dimostrate, sicuramente non saremmo noi italiani i colpevoli e, se c’eravamo, probabilmente dormivamo. Questo lo aggiungo io, ma in fondo la posizione del Governo sugli obiettivi europei 20-20-20 non è poi così diversa. Siamo sempre lì, al “c’era un francese, un tedesco e un italiano…”. Alle barzellette, vera specialità nostrana, come le corna nelle foto di gruppo.
E mentre il mercato di tecnologie green – esempio clamoroso, il fotovoltaico – decolla anche in Italia, la nostra “grande” imprenditoria, sempre a braccetto con la politica, preferisce rincorrere fonti fossili, nucleare, termovalorizzatori, biocombustibili d’importazione e ponti di Messina. Il fotovoltaico? Ci limitiamo a installarlo; a produrre sistemi e componenti ci pensano soprattutto gli altri. E fatece dormì!
L’assenza dalla classifica degli eco-ricchi si spiega forse anche così. Il manuale sul fotovoltaico negli edifici, scritto da Alessandra Scognamiglio, Paola Bosisio e Vincenzo Di Dio – un’opera che è il nuovo reference book sul tema – mostra come a volte le cose vadano avanti ugualmente, anche nel paese degli eco-distratti.

ps: è chiaro che se lo smaltimento di rifiuti tossici e pericolosi in fondo al mare fosse contemplato tra i settori della green economy, probabilmente avremmo anche noi i nostri eco-ricchi. C’è da esserne fieri.