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L'economia degli eco-distratti di Marco Moro
Fotovoltaico negli edifici. Intervista ad Alessandra Scognamiglio e Paola Bosisio di Filippo Franchetto
La guerra senza volto alla conquista delle risorse. Intervista a Maso Notarianni di Emiliano Angelelli
I negazionisti climatici. Intervista a Stefano Caserini di Diego Tavazzi
Fame nel mondo. Intervista a Gianni Tamino di Paola Fraschini
Progettare la sostenibilità. Intervista a Jana Revedin di Anna Satolli
Relitti fantasma di Antonio Pergolizzi
Via libera alla privatizzazione dell'acqua di Ilaria Di Bella

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La guerra senza volto alla conquista delle risorse
Intervista a Maso Notarianni
di Emiliano Angelelli

Guerra alla Terra. I conflitti nel mondo per la conquista delle risorse è questo il titolo della nuova inchiesta di VerdeNero curata da PeaceReporter, con la prefazione di Gino Strada e le vignette di Vauro. Un libro “globale” sia dal punto di vista geografico sia per le tematiche che mette in gioco. Ne abbiamo parlato con Maso Notarianni, direttore di PeaceReporter.

Nell’introduzione a Guerra alla Terra parli di esseri umani di serie B, quegli esseri umani altro da noi a cui quotidianamente muoviamo guerra, dei quali non vengono mai mostrati i volti, mai svelate le storie. In questo senso, qual è l’obiettivo del libro curato da PeaceReporter?
È lo stesso di PeaceReporter, quello di cercare di raccontare quel che accade nel mondo rendendolo il più vicino possibile ai lettori.
Non esiste la censura, volendo le notizie ci sono e si trovano anche sui quotidiani più diffusi. Ma un conto è dire che – ad esempio – in Afghanistan ieri ci sono stati cinquanta morti civili, altro conto è raccontare i volti, le storie, le sofferenze delle persone. Che è un po’ quello che normalmente i giornali e i giornalisti dovrebbero fare, ma che spesso, non so se per scelta consapevole o se per semplice superficialità, non fanno quasi mai.
La tragedia dell’11 settembre del 2001 è diventata parte di ognuno di noi, parte della nostra storia e parte del nostro vivere quotidiano, non per il gran numero di vittime, ma perché quelle vittime sono state raccontate. Ne sono state raccontate le storie, loro e delle loro famiglie, e giustamente. Non erano numeri, ma erano persone in carne e ossa.

Una delle storie del libro riguarda la Palestina, un territorio e una popolazione di cui si parla molto nei media, ma non per la contesa dell’acqua, il motivo principale di conflitto secondo il parere di Christian Elia, autore di questo contributo.
Un fatto di cui si parla poco, ma un fatto indiscutibile. Le risorse idriche sono il punto vero su cui si gioca il controllo del territorio di Israele. Non a caso, l’unica parte di territorio conquistata – e non restituita – durante l’ultima invasione del Libano è quella su cui scorre il fiume Litani. E nel 2001 si era scatenata una crisi per la gestione delle acque del fiume Hasbani. Un bacino importante, che fornisce quasi il 25% degli immissari del Lago di Tiberiade, il principale serbatoio idrico dello Stato ebraico. E nel 2002 le tensioni tra Libano e Israele si erano aperte lungo il fiume Wazzani, importante affluente dell’Hasbani, essenziale fonte idrica per Israele. Il Libano aveva infatti iniziato a pompare acqua dal fiume per soddisfare le esigenze domestiche e agricole dei villaggi del sud del Libano, che faticosamente tentavano di rinascere dopo il ritiro israeliano.
Oggi l’acqua palestinese è usata per l’85% da Israele. Nella Cisgiordania solo il 5% dei terreni coltivati dai palestinesi è irrigato, le aree coltivate dai coloni israeliani lo sono per il 70%. Un israeliano consuma circa 370 metri cubi di acqua l’anno, un israeliano che vive nelle colonie ne consuma tra i 650 e i 1.500. Un palestinese ne può usare poco più di 100.

La risorsa contesa di cui ci racconta Alessandro Grandi è il litio del Salar Uyuni, in Bolivia. Ancora nessuna guerra è stata scatenata per averlo, ma vista la futura importanza strategica di questo minerale, credi che esista il rischio che anche lì si accenda un conflitto?
Spero proprio di no. Ma un rischio esiste ed è molto concreto. Perché l’America Latina non è più “il giardino di casa” degli Stati Uniti d’America. Le nuove democrazie, nate dopo anni di dittature tra le più sanguinarie che la storia ricordi, hanno ben presente che per crescere debbono riappropriarsi di quelle risorse naturali che le grandi compagnie hanno sottratto ai loro legittimi proprietari. E questo potrebbe essere mal tollerato. La speranza è che chi governa le sorti del mondo comprenda che la guerra di alta intensità non è uno strumento conveniente da utilizzare. Obama ha vinto, a mio parere incomprensibilmente, il premio Nobel per la pace. Auguriamoci che voglia dimostrare di esserne all’altezza, anche se le scelte che ha fatto sull’Afghanistan ci dicono esattamente il contrario.

Nella storia di Matteo Fagotto sul Delta del Niger emerge la figura di Ken Saro Wiva, scrittore e già leader del Movement for the Survival of the Ogoni People (Mosop), condannato a morte solo per aver cercato di tutelare i diritti della popolazione Ogoni, figlia di un territorio tra i più ricchi in Nigeria di risorse naturali.
È una storia che purtroppo si ripete, quella dei martiri ambientali. Perché sempre, dietro a ogni conflitto, ci sono delle ragioni di sfruttamento delle risorse. Questo accade sia per le guerre sia per le crisi militari, ma anche nei conflitti tra grandi proprietari terrieri e contadini. Il possesso delle risorse naturali rende possibile il nostro tenore di vita, nostro nel senso di occidentali in generale. E le ragioni delle ultime guerre sono svelate dalla frase che i presidenti degli Stati Uniti d’America ripetono, a prescindere dalla loro appartenenza politica: “Non lasceremo condizionare a nessuno il nostro stile di vita”. Beninteso, gli Usa non sono il diavolo, sono banalmente il paese più ricco e più potente, e quindi anche più responsabile di ciò che accade, secondo il principio ovvio che più alta è la posizione in una qualsiasi gerarchia più alta è la responsabilità.

La storia raccontata da Cecilia Strada è probabilmente quella più personale, in quanto vero e proprio racconto di viaggio. E in questo caso la risorsa in ballo è molto particolare, perché si tratta del territorio strategicamente fondamentale dell’Afghanistan.
È tanto particolare che in quel paese l’Occidente sta combattendo una guerra che è durata più della Seconda guerra mondiale. Ma in Afghanistan non c’è solo un territorio strategicamente importante come il confine con la Cina (che per tutti gli osservatori è il rivale principale dell’Occidente), c’è anche un piano per costruire un nuovo oleodotto, c’è l’uranio, ci sono minerali importanti. E c’è la risorsa più ghiotta: l’oppio, l’eroina.
Cito Antonio Maria Costa, direttore generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), che in un’intervista al settimanale austriaco Profil
ha dichiarato: “Il traffico di droga è l’unica industria in espansione. I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto del denaro viene immesso nell’economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Il denaro proveniente dal traffico di droga attualmente è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario in crisi e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. È ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”.

In 3.358 anni di storia (dal 1496 avanti Cristo al 1861) ci sono stati 3.130 anni di guerra e 277 di pace, ovvero tredici anni di guerra per ogni anno di pace. Insomma la guerra genera guerra, ma sembra che l’essere umano non riesca proprio a fare a meno di essa…
Non l’essere umano, ma il potere non può farne a meno. L’essere umano è animale sociale. E una delle cose che lo distinguono dagli altri animali è quella di costruire astrazioni e teorizzare. Tutti gli animali tendono a ritualizzare i conflitti. Noi in più potremmo addirittura costruire dei modelli teorici o astratti per evitare l’uso dello “strumento guerra”. No, la guerra non è una cosa innata nell’uomo, nel modo più assoluto. Lo è la violenza, forse. Ma non la guerra. La guerra è una scelta. Una scelta mostruosa. Uno strumento aberrante che non può che essere abolito, se si vuole che il mondo possa avere un futuro.
Questo, in effetti, è un passaggio difficile da fare. Troppo spesso la guerra è data come scontata, come cosa naturale. Anche nella domanda c’è un po’ questa accettazione della guerra come cosa innata per l’uomo. Non lo è affatto. E questa è una delle più importanti falsificazioni costruite dal potere per preservare se stesso.