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La guerra senza
volto alla conquista delle risorse
Intervista a Maso Notarianni
di Emiliano Angelelli
Guerra alla Terra. I conflitti nel mondo per la conquista delle risorse è questo il titolo della nuova inchiesta di VerdeNero curata da PeaceReporter, con la prefazione di Gino Strada e le vignette di Vauro. Un libro “globale” sia dal punto di vista geografico sia per le tematiche che mette in gioco. Ne abbiamo parlato con Maso Notarianni, direttore di PeaceReporter.
Nell’introduzione
a Guerra
alla Terra parli di esseri umani di serie B, quegli esseri umani altro da noi a cui
quotidianamente muoviamo guerra, dei quali non vengono mai mostrati i volti,
mai svelate le storie. In questo senso, qual è l’obiettivo del libro curato da
PeaceReporter?
È lo
stesso di PeaceReporter, quello di cercare di raccontare quel che accade nel
mondo rendendolo il più vicino possibile ai lettori.
Non esiste la censura, volendo le notizie ci sono e si trovano anche sui quotidiani
più diffusi. Ma un conto è dire che – ad esempio – in Afghanistan
ieri ci sono stati cinquanta morti civili, altro conto è raccontare i volti, le
storie, le sofferenze delle persone. Che è un po’ quello che normalmente i
giornali e i giornalisti dovrebbero fare, ma che spesso, non so se per scelta
consapevole o se per semplice superficialità, non fanno quasi mai.
La tragedia dell’11 settembre del 2001 è diventata parte di ognuno di noi,
parte della nostra storia e parte del nostro vivere quotidiano, non per il gran
numero di vittime, ma perché quelle vittime sono state raccontate. Ne sono
state raccontate le storie, loro e delle loro famiglie, e giustamente. Non
erano numeri, ma erano persone in carne e ossa.
Una delle storie del libro riguarda la Palestina, un territorio e una
popolazione di cui si parla molto nei media, ma non per la contesa dell’acqua,
il motivo principale di conflitto secondo il parere di Christian Elia, autore
di questo contributo.
Un fatto
di cui si parla poco, ma un fatto indiscutibile. Le risorse idriche sono il
punto vero su cui si gioca il controllo del territorio di Israele. Non a caso,
l’unica parte di territorio conquistata – e non restituita –
durante l’ultima invasione del Libano è quella su cui scorre il fiume Litani. E
nel 2001 si era scatenata una crisi per la gestione delle acque del fiume
Hasbani. Un bacino importante, che fornisce quasi il 25% degli immissari del
Lago di Tiberiade, il principale serbatoio idrico dello Stato ebraico. E nel
2002 le tensioni tra Libano e Israele si erano aperte lungo il fiume Wazzani,
importante affluente dell’Hasbani, essenziale fonte idrica per Israele. Il
Libano aveva infatti iniziato a pompare acqua dal fiume per soddisfare le
esigenze domestiche e agricole dei villaggi del sud del Libano, che
faticosamente tentavano di rinascere dopo il ritiro israeliano.
Oggi l’acqua palestinese è usata per l’85% da Israele. Nella Cisgiordania solo
il 5% dei terreni coltivati dai palestinesi è irrigato, le aree coltivate dai
coloni israeliani lo sono per il 70%. Un israeliano consuma circa 370 metri
cubi di acqua l’anno, un israeliano che vive nelle colonie ne consuma tra i 650
e i 1.500. Un palestinese ne può usare poco più di 100.
La risorsa contesa di cui ci racconta Alessandro
Grandi è il litio del Salar Uyuni, in Bolivia. Ancora nessuna guerra è stata
scatenata per averlo, ma vista la futura importanza strategica di questo
minerale, credi che esista il rischio che anche lì si accenda un conflitto?
Spero
proprio di no. Ma un rischio esiste ed è molto concreto. Perché l’America
Latina non è più “il giardino di casa” degli Stati Uniti d’America. Le nuove
democrazie, nate dopo anni di dittature tra le più sanguinarie che la storia
ricordi, hanno ben presente che per crescere debbono riappropriarsi di quelle
risorse naturali che le grandi compagnie hanno sottratto ai loro legittimi
proprietari. E questo potrebbe essere mal tollerato. La speranza è che chi
governa le sorti del mondo comprenda che la guerra di alta intensità non è uno
strumento conveniente da utilizzare. Obama ha vinto, a mio parere
incomprensibilmente, il premio Nobel per la pace. Auguriamoci che voglia
dimostrare di esserne all’altezza, anche se le scelte che ha fatto
sull’Afghanistan ci dicono esattamente il contrario.
Nella storia di Matteo Fagotto sul Delta del Niger
emerge la figura di Ken Saro Wiva, scrittore e già leader del Movement for the
Survival of the Ogoni People (Mosop), condannato a morte solo per aver cercato
di tutelare i diritti della popolazione Ogoni, figlia di un territorio tra i
più ricchi in Nigeria di risorse naturali.
È una
storia che purtroppo si ripete, quella dei martiri ambientali. Perché sempre,
dietro a ogni conflitto, ci sono delle ragioni di sfruttamento delle risorse.
Questo accade sia per le guerre sia per le crisi militari, ma anche nei
conflitti tra grandi proprietari terrieri e contadini. Il possesso delle
risorse naturali rende possibile il nostro tenore di vita, nostro nel senso di
occidentali in generale. E le ragioni delle ultime guerre sono svelate dalla
frase che i presidenti degli Stati Uniti d’America ripetono, a prescindere
dalla loro appartenenza politica: “Non lasceremo condizionare a nessuno il
nostro stile di vita”. Beninteso, gli Usa non sono il diavolo, sono banalmente
il paese più ricco e più potente, e quindi anche più responsabile di ciò che
accade, secondo il principio ovvio che più alta è la posizione in una qualsiasi
gerarchia più alta è la responsabilità.
La storia raccontata da Cecilia Strada è
probabilmente quella più personale, in quanto vero e proprio racconto
di viaggio. E in questo caso la risorsa in ballo è molto particolare, perché si
tratta del territorio strategicamente fondamentale dell’Afghanistan.
È tanto
particolare che in quel paese l’Occidente sta combattendo una guerra che è
durata più della Seconda guerra mondiale. Ma in Afghanistan non c’è solo un
territorio strategicamente importante come il confine con la Cina (che per
tutti gli osservatori è il rivale principale dell’Occidente), c’è anche un
piano per costruire un nuovo oleodotto, c’è l’uranio, ci sono minerali
importanti. E c’è la risorsa più ghiotta: l’oppio, l’eroina.
Cito Antonio Maria Costa, direttore generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite
contro la droga e il crimine (Unodc), che in un’intervista al settimanale
austriaco Profil ha dichiarato: “Il traffico di droga è l’unica industria in espansione. I
proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto
del denaro viene immesso nell’economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo
quanto, ma il volume è impressionante. Il denaro proveniente dal traffico di
droga attualmente è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella
seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema
bancario in crisi e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore
importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro
che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. È
ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di
banche sia stato salvato con questi mezzi”.
In
3.358 anni di storia (dal 1496 avanti Cristo al 1861) ci sono stati 3.130 anni
di guerra e 277 di pace, ovvero tredici anni di guerra per ogni anno di pace.
Insomma la guerra genera guerra, ma sembra che l’essere umano non riesca
proprio a fare a meno di essa…
Non
l’essere umano, ma il potere non può farne a meno. L’essere umano è animale
sociale. E una delle cose che lo distinguono dagli altri animali è quella di
costruire astrazioni e teorizzare. Tutti gli animali tendono a ritualizzare i
conflitti. Noi in più potremmo addirittura costruire dei modelli teorici o
astratti per evitare l’uso dello “strumento guerra”. No, la guerra non è una
cosa innata nell’uomo, nel modo più assoluto. Lo è la violenza, forse. Ma non
la guerra. La guerra è una scelta. Una scelta mostruosa. Uno strumento
aberrante che non può che essere abolito, se si vuole che il mondo possa avere
un futuro.
Questo, in effetti, è un passaggio difficile da fare. Troppo spesso la guerra è
data come scontata, come cosa naturale. Anche nella domanda c’è un po’ questa
accettazione della guerra come cosa innata per l’uomo. Non lo è affatto. E
questa è una delle più importanti falsificazioni costruite dal potere per
preservare se stesso.