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Trivelle armate di Diego Tavazzi
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Nucleare, è scontro in Parlamento di Ilaria Di Bella
Un settore che non conosce crisi di Antonio Pergolizzi

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Trivelle armate
di Diego Tavazzi

Quando nell'autunno del 2008 iniziò la crisi finanziaria internazionale, molti analisti del settore dell'energia affermarono che la corsa alle riserve si sarebbe fermata.
Il crollo dei prezzi del petrolio, passato da 140 dollari al barile del luglio 2008 ai 40 di novembre, sembrava dar loro ragione. Anche il temuto picco pareva più lontano. Al largo delle coste atlantiche del Brasile erano stati scoperti enormi depositi “pre-salt” (comunque difficili da sfruttare, perché comportano la perforazione di uno strato di depositi salini di 2.000 metri fino a una profondità di 7.000 metri sotto il livello del mare). Le sabbie bituminose dell’Alberta e il greggio extra pesante della regione dell’Orinoco in Venezuela lasciavano intravedere la possibilità di ottimi affari, e lo scioglimento dei ghiacci nel Mare Artico veniva salutato come un’opportunità per trivellare alla ricerca delle ingenti risorse che si ritiene siano sepolte nella regione.
Di recente, poi, alcuni studi hanno rivisto al rialzo le stime sulla disponibilità del petrolio: le nuove tecnologie di estrazione (iniezione di gas ad alta pressione nei giacimenti, sistemi di perforazione orizzontali e impiego di batteri per liquefare gli idrocarburi dissolti nelle rocce e portarli in superficie) consentirebbero sia di dare nuova vita a giacimenti considerati già esauriti sia di aumentare la produttività di quelli già operativi. Va tutto bene, allora? Dobbiamo smettere di preoccuparci per il futuro dei nostri approvvigionamenti energetici? La risposta, come dimostra il libro di Michael Klare Potenze emergenti (in libreria dal 17 febbraio), purtroppo è “no”.
Prigioniere di un modello di sviluppo miope, che impone consumi e domanda in continua e costante crescita, e costrette ad affrontare una concorrenza sempre più aggressiva, tutte le grandi nazioni “energivore” hanno comunque intensificato la loro corsa ai giacimenti rimasti, dovunque essi siano. Nuove aree vengono esplorate: l’Africa, che per un secolo è stata spogliata delle sue risorse naturali dai colonialisti europei, ed è stata il teatro della “Guerra fredda a bassa intensità” combattuta dopo il crollo delle potenze coloniali, oggi torna a essere l’oggetto del desiderio di compagnie private e statali. Nigeria, Repubblica della Guinea Equatoriale, Angola: sono solo alcuni degli stati africani che in anni recenti sono stati inondati di petroldollari, a vantaggio ovviamente dei soliti, pochi, noti – classi dirigenti e loro famigliari e clienti – e a svantaggio di tutti gli altri, che dal petrolio ricavano solo inquinamento e distruzioni ambientali e culturali. Anche il Mar Caspio, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, è diventato il teatro di una nuova sfida tra Stati Uniti e Russia, combattuta a suon di attenzioni diplomatiche e di massicce trasfusioni di armi e tecnologie militari (e Klare sottolinea il rischio che dove ci sono più armi è più facile che scoppino guerre). Ovviamente non poteva mancare la Cina che, nella sua strategia di diversificazione dei fornitori di petrolio, ha fatto affari con tutti i dittatori della regione. India e Giappone, paesi con tradizioni democratiche migliori, arrancano, ma paiono intenzionati a colmare il divario.
Un’altra conseguenza di questa rinnovata “corsa all’oro nero” è la trasformazione della natura degli stati. Il caso della Russia è emblematico, come dimostra un episodio poco noto della carriera di Putin ricordato da Klare.
Mentre lavorava come funzionario dell’amministrazione municipale di San Pietroburgo, a metà degli anni ’90, Putin riuscì a completare un dottorato presso l’Istituto minerario della città, un polo educativo da sempre legato alle élite dei governanti russi. In contrasto con la visione diffusa tra gli economisti russi, secondo i quali la privatizzazione e un controllo ridotto dello stato avrebbero spronato la crescita economica, Putin concluse che, almeno nel settore delle risorse naturali, la proprietà e la supervisione dello stato erano necessarie per dare maggior forza all’economia e per impedire lo sfruttamento delle materie prime russe da parte di investitori stranieri o di privati senza scrupoli. Eletto nel 2000, Putin ha sfruttato il suo potere per dare attuazione concreta al suo pensiero. Ha contribuito alla creazione di Gazprom, un colosso dell’energia capace di condizionare le scelte politiche di mezza Europa, ha estromesso dal suo paese le compagnie straniere, ha intessuto amicizie pericolose con i dittatori delle regioni ex-sovietiche (nel maggio-giugno del 2005 il dittatore uzbeko Islam Karimov represse una rivolta nella città orientale di Andizhan, provocando centinaia di morti e feriti. Putin elogiò la sua fermezza nel mantenere l’ordine interno). In sostanza, l’attuale primo ministro ha trasformato lo stato russo nel monopolista dell’energia, a spese delle istituzioni democratiche e delle libertà civili, che sempre più passano in secondo piano rispetto alla sicurezza energetica.
La corsa alle riserve è poi destinata a scontrarsi con gli impatti dei cambiamenti climatici. È ormai chiaro il ruolo delle emissioni di gas serra nel provocare il riscaldamento globale, e Klare giustamente sottolinea che l’intensificazione della frequenza e dell’intensità delle emissioni rischia di avere effetti pesanti sulle fragili strutture di approvvigionamento e distribuzione dei combustibili. C’è poi da considerare che l’economia fossile produce moltissimo denaro, ma ne costa parecchio. Continuare sulla strada che abbiamo percorso finora distrarrà gli investimenti nella ricerca di fonti energetiche alternative, rischiando di innescare un circolo vizioso, per cui si cerca disperatamente il petrolio che rimane, lo si estrae a costi sempre più alti, e ci sono meno soldi.
Il panorama descritto in Potenze emergenti non lascia molto spazio alla speranza, eppure Klare individua una via di uscita. Se i problemi sono globali, le soluzioni dovranno essere, appunto, globali. Stati Uniti e Cina (che nel 2030 saranno responsabili del 45% delle emissioni totali di anidride carbonica) devono cooperare per sviluppare assieme un nuovo modello industriale, basato su rinnovabili ed efficienza nell’uso delle risorse. Qualche timido segnale in questo senso, nonostante i recenti avvenimenti di Copenaghen, c’è. Di sicuro, non sarà una partita facile. Ma abbiamo sempre meno tempo per giocarla.