In questo numero

Rivoluzione culturale di Marco Moro
State of the World 2010. Conversazione con Erik Assadourian di Franco Lombini e Mario Tadiello
L'altra spesa. Intervista a Michele Bernelli e Giancarlo Marini di Anna Satolli
Un'ecologista in carriera. Intervista ad Alice Audouin di Paola Fraschini
Il pozzo dei desideri. Intervista a Sabina Morandi di Emiliano Angelelli
Il gioco dell'acqua di Ilaria Di Bella

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State of the World 2010
Conversazione con Erik Assadourian
di Franco Lombini e Mario Tadiello*

Il consumismo non è un fenomeno naturale, ma un costrutto culturale che può essere contrastato, trasformato o eliminato. Anche la sostenibilità non è un dato, ma un risultato che può essere raggiunto attraverso l’alleato principe del consumismo: il marketing.
Il marketing sociale, cioè quell’insieme di strategie e tecniche messe in atto al fine di modificare o abbandonare comportamenti umani deleteri per i sistemi naturali, agendo sulle più importanti istituzioni a livello globale – istruzione, media, governi, imprese, tradizioni e movimenti sociali – può reindirizzare le culture verso la sostenibilità.
Di questi e altri argomenti parliamo con Erik Assadourian, senior researcher del Worldwatch Institute e direttore del progetto State of the World 2010 Trasformare la cultura del consumo. Il Rapporto quest’anno è dedicato a documentare un grande cambiamento culturale in atto: lo slancio con cui sta crescendo la cultura della sostenibilità in ogni parte del mondo.

Stiamo assistendo a un “Rinascimento” delle culture della sostenibilità, probabilmente stimolato dagli effetti drammatici della più grave crisi finanziaria dopo la Grande Depressione. Se non trasformeremo l’attuale cultura del consumo, probabilmente faremo i conti con una crisi ben più profonda, “la Grande Collisione”, per dirla con Gustav Speth. Sei d’accordo con questa affermazione?
Sono pienamente d’accordo che se non si compieranno cambiamenti significativi, l’unico futuro possibile sarà caratterizzato da uno sconvolgimento ecosistemico con cui la società umana dovrà confrontarsi e fare i conti. Tuttavia, non sono d’accordo che la crisi finanziaria abbia scatenato una nuova coscienza della sostenibilità. Anzi, sono molti i paesi che hanno cominciato a sfruttarla come pretesto per non promuovere sostenibilità in maniera più decisa e si sono concentrati quasi esclusivamente a far ripartire la crescita economica. Tutto ciò, se vogliamo essere onesti, è assolutamente improponibile, se si vuole mantenere la sicurezza della società umana nel lungo periodo.
I paesi occidentali dovranno volontariamente ridurre i consumi e abbracciare ciò che alcuni definiscono come “decrescita”. In questo contesto, la recessione potrebbe davvero offrire delle opportunità. Per esempio, questo sarebbe il momento ideale per promuovere una nuova normativa sull’orario lavorativo (problema particolarmente sentito negli Stati Uniti, ndr), passando dalle 40 ore settimanali a 30 o persino 25. Con questo semplice accorgimento si otterrebbero risultati stupefacenti nella riduzione della disoccupazione e una miglior distribuzione del reddito (per cui più persone potrebbero permettersi di soddisfare i bisogni di base) e ancor più ridurrebbe il reddito disponibile, profondamente connesso all’impatto ecologico di ogni individuo. Così le persone avrebbero più tempo libero e una miglior qualità di vita, ottenendoli in modi che non compromettano il benessere di lungo periodo del pianeta o della società umana, che ovviamente dipende da questo pianeta per la sua sicurezza.

Il consumismo come prodotto culturale di valori, credenze, norme e consuetudini, modella la percezione individuale della realtà divenendo il paradigma culturale dominante dell’odierna società. Credi che, per creare una controcultura della sostenibilità, ricorrere a strumenti tipici della società dei consumi come il marketing sociale possa essere una soluzione praticabile ed efficace?
Assolutamente sì! Per creare un nuovo modello culturale dovremo utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione. I sistemi scolastici andranno riformati, e la formazione ambientale andrà messa al centro dei programmi d’istruzione. La cultura imprenditoriale andrà rivista in modo che, nel lungo periodo, la missione sociale diventi importante almeno tanto quanto l’imperativo di generare profitti. Da parte loro i governi dovranno elaborare leggi e programmi che rendano la sostenibilità una scelta naturale, tanto quanto la propensione al consumo lo è oggi (ad esempio disincentivando l’uso dell’auto e rendendo più facile condurre una vita “pedonale”).
Il marketing è uno strumento estremamente potente di normalizzazione dei comportamenti, purtroppo ai giorni nostri del comportamento consumistico. Sarà fondamentale eliminare gradualmente quel marketing che rafforza stili di vita caratterizzati da consumi elevati e sostituirlo con il “marketing sociale”, che incoraggia e rafforza comportamenti ecologicamente responsabili, tra cui la scelta di prodotti sostenibili e, primo fra tutti, il non consumo, laddove è possibile. Recentemente la Spagna ha compiuto un importante passo in avanti, vietando la pubblicità nelle emittenti televisive pubbliche e tassando le aziende che si occupano di comunicazione per controbilanciare i mancati introiti. Se fosse possibile utilizzare tali entrate in campagne di marketing coscienziose che incoraggiassero gli spagnoli a consumare meno, a utilizzare maggiormente la bicicletta, a installare impianti solari termici, a coltivare parte del loro cibo in orti e via dicendo, il governo potrebbe veramente iniziare a normalizzare l’idea del vivere più semplicemente e in maniera sostenibile.

Le comunità religiose potrebbero partecipare alla formazione di nuove culture della sostenibilità. In passato si sono rivelate influenti motori di ideali, basti pensare ai movimenti religiosi contro l’apartheid in Sudafrica o contro la rivoluzione sandinista in Nicaragua. I loro ideali, per esempio il vivere semplice e il rispetto per la natura, sarebbero sufficienti a sradicare la cultura consumistica?
Questi ideali, da soli, non basteranno. Ma se le comunità abbracceranno davvero la sostenibilità facendone una causa propria e poi proponendola ai loro membri e a livello nazionale e globale, la loro autorità morale e influenza politica potrebbero essere proprio ciò che servirà per passare a una cultura della sostenibilità. Ci sono già esempi eloquenti di gruppi religiosi che diffondono idee per la tutela ambientale e ideali di conservazione, il che fa ben sperare. Purtroppo, hanno spesso sottaciuto i pericoli del consumismo, benché quasi tutte le religioni si fondino su importanti insegnamenti circa i pericoli di una smisurata ricchezza e consumo. Se riusciranno a farsi messaggere di questi temi, la loro influenza potrebbe rivelarsi determinante.

Secondo gli antropologi, molte culture tradizionali si basano sul rispetto e la protezione dei sistemi naturali che forniscono i mezzi di sostentamento alle società umane. Credi che ricorrere a tali visioni tradizionali del mondo sarà sufficiente per frenare le attuali tendenze consumistiche o sarà necessario escogitarne di nuove in sintonia con il nostro tempo? Se così fosse, cosa suggerisci?
Coltivare le tradizioni sarà un fattore importante al pari della pubblicità, degli insegnamenti religiosi e di nuovi tipi d’istruzione e attività imprenditoriali. Di fatto, solo avvalendosi proficuamente di queste istituzioni in modo sinergico riusciremo a coltivare culture sostenibili. Ma certamente, le tradizioni, e in particolare i rituali, svolgono un ruolo importante.
Per esempio, negli Usa, la sepoltura avviene nel peggiore dei modi. I morti sono imbalsamati con l'ausilio di sostanze tossiche, posti in bare di legno costoso, a loro volta collocate in tombe di plastica o di cemento. Inoltre, questo tipo di sepoltura rafforza la convinzione che siamo e dovremmo essere separati dalla natura. Cambiando questo rito – per esempio adottando una sepoltura naturale in cimiteri che col passare del tempo possano diventare parchi o foreste – non solo potremmo trasformare la morte in un processo ecologicamente rigenerativo anziché distruttivo, ma anche cambiare la percezione del nostro ruolo nella natura. Col passare del tempo, forse, riusciremo a non vederci più come esseri distinti dalla natura ma come un tutt’uno col ciclo naturale della vita.

Le immagini grafiche possono agire da deterrenti. Per esempio, in molti paesi, sui pacchetti di sigarette ci sono immagini che mostrano le conseguenze del fumo. Pensi che questa strategia potrebbe essere usata anche per sensibilizzare il pubblico alle conseguenze di pratiche consumistiche come lo sfruttamento del lavoro minorile o la deforestazione dovuta alla coltivazione della soia?
Questa è un’idea senz’altro interessante, ma ritengo che sarebbe difficile da applicare. Se anche si trovasse la forza politica per farlo, si dovrebbero attaccare le immagini positive artefatte che il marketing abitualmente usa. Probabilmente una migliore regolamentazione del marketing sarebbe molto più potente di un’immagine negativa che cerca di contrastare le immagini positive. Sostengo che le immagini antifumo funzionino perché contemporaneamente alla loro introduzione sono state vietate le pubblicità a favore del fumo e quindi ora la maggior parte delle immagini legate al fumo sono negative. Purtroppo, però, il “posizionamento” delle sigarette è ancora dilagante e si è dimostrato che la sua influenza sul tabagismo giovanile è ancora più forte di quella esercitata dalla pressione dei coetanei o dei genitori fumatori.
Ribadisco che sarà comunque fondamentale usare il maggior numero di queste strategie e, idealmente, il più rapidamente possibile, poiché i sistemi ecologici sono messi sempre più a dura prova e il tempo a nostra disposizione per agire sta scadendo.

* Dal 2004 stimati traduttori del Rapporto del Worldwatch Institute per Edizioni Ambiente.