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Il gioco dell’acqua
di Ilaria Di Bella

L’iniziativa è passata quasi inosservata, ma è di quelle che lasciano in bocca il sapore buono della speranza e la sensazione che, al di là dell’attenzione dei media, ci siano ancora persone comuni smaliziate e interessate a temi sostanziali. Proprio nel giorno in cui Berlusconi ha riunito i suoi in piazza San Giovanni a Roma “per difendere la libertà di parola” (invocata, come si ricorderà, contro l’esclusione della lista del Pdl alle elezioni regionali del Lazio), il 20 marzo hanno sfilato in 200 mila, sempre nella Capitale, per difendere l’acqua “bene comune” dalla privatizzazione. Una manifestazione indetta da circa 100 sigle dell’associazionismo alcune settimane prima di quella del centrodestra, lontana dai partiti politici, con molti amministratori locali, alla quale hanno partecipato esponenti dello schieramento della maggioranza al governo così come delle forze di centrosinistra.
Il senso della protesta è presto spiegato. Senza troppo clamore, il 19 novembre la Camera dei Deputati ha approvato definitivamente, con il ventiseiesimo voto fiducia del governo della Destra, il decreto “Ronchi” (dal cognome dell’attuale ministro delle Politiche comunitarie), contenente alcune misure “salva-infrazioni” da parte dell’Unione all’Italia e, all’articolo 15, la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Il provvedimento - che riguarda non solo l’acqua, ma anche i rifiuti e il trasporto pubblico locale - stabilisce in sostanza che, a partire dai prossimi anni, i servizi pubblici locali dovranno essere affidati esclusivamente attraverso lo strumento della gara d’appalto. Tramonta dunque, salvo casi eccezionali, la cosiddetta formula in house che consentiva ai Comuni di affidare a propri organismi, o ad aziende controllate dall’amministrazione locale (le cosiddette utility, ex-municipalizzate), la gestione di determinati servizi fondamentali come, appunto, la captazione e la distribuzione dell’acqua e che finora aveva garantito alcune “eccellenze” di qualità ed efficienza.
Ora la legge statuisce che tutte le gestioni affidate senza gara “cessano improrogabilmente e senza necessità di deliberazione da parte dell’ente affidante alla data del 31 dicembre 2011” o alla scadenza prevista dal contratto di servizio “a condizione che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40 per cento del capitale attraverso modalità competitive e di evidenza pubblica”. Le municipalizzate già quotate in Borsa cesseranno a scadenza del contratto di servizio a condizione che la “partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente… a una quota non superiore al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e non superiore al 30 per cento entro il 31 dicembre 2015”. Alle future procedure di gara potranno partecipare società private o a partecipazione mista. La gestione in house è consentita, in deroga alla normativa, solo “per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento non permettono un efficace ricorso al mercato”. Solo un emendamento del Pd, presentato al Senato da Filippo Bubbico, ha consentito di salvare almeno la “piena ed esclusiva proprietà pubblica dell’acqua”, sottolineando che l’affidamento al mercato riguarda solo la gestione.
Lo scontro in Parlamento è stato molto duro, ma anche questo è passato sotto silenzio. Per necessità di sintesi diremo solo che il fronte è variegato, ma in sostanza c’è chi ritiene che il mercato sia garanzia di efficienza e costi più bassi, e chi invece sostiene che in questo modo si aprirà solo la strada all’espansione in Italia delle multinazionali e ancora chi ritiene necessario introdurre almeno un’Authority terza di controllo e garanzia. Al momento della fiducia la Lega si è mostrata fredda rispetto alle posizioni del Pdl (“Non si muore per una legge, si muore se salta il governo”, ha detto Bossi) e ha fatto approvare un ordine del giorno che impegna il governo a tenere conto del fatto che la gestione in house, nei Comuni virtuosi, può essere efficiente e dunque conveniente (e quindi va conservata). Il nodo sollevato dai manifestanti appare fondamentale: l’acqua è un bene o un diritto? Si può negare a qualcuno per interesse economico? Ora la parola passa ai regolamenti attuativi. Con la sensazione che, come al solito in Italia, la soluzione stia tra le maglie della normativa, nei margini di discrezionalità seminati qua e là tra i commi che potranno consentire interpretazioni favorevoli almeno a quelle gestioni locali che hanno assicurato finora efficienza, qualità dell’“acqua del sindaco”, prezzi contenuti. Come sempre, “in deroga” alla legge.
Nel frattempo il Forum dei movimenti per l'acqua ha depositato in Cassazione tre quesiti referendari per abrogare le norme sulla privatizzazione forzata appena approvate, mentre due senatori del Pd, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, hanno presentato un disegno di legge per cancellare quelle misure e lasciar decidere ai Comuni quale sia la modalità più giusta di gestione delle risorse idriche (al di là delle posizioni ideologiche). Anche perché, sostengono, i referendum non raggiungono più (purtroppo) il quorum da tempo.