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In fondo al mare
di Antonio Pergolizzi


Il Ministero dell’ambiente, nella persona del ministro Stefania Prestigiacomo, dice che non ha i mezzi per tirare fuori dal mare dell’isola d’Elba un container scaricato nell’estate del 2009 da una nave portacontainer battente bandiera maltese. Non ci sono i soldi, dice. Eppure dovrebbero esserci per questo genere di cose, quando c’è in ballo la salute del mare e degli italiani.
Era il 5 luglio 2010 quando a circa 10 miglia al largo di Marciana Marina (isola d'Elba) la nave ambientalista tedesca “MS Thales”, che lì si trovava per sfuggire a una burrasca, ha scoperto la nave portacontainer maltese “Toscana” con le gru in piena attività, proprio nell’atto di gettare qualcosa in mare. Ne è seguita una dettagliata denuncia della stessa associazione tedesca, raccolta da Legambiente, poi girata alla Procura: le indagini hanno immediatamente confermato quanto denunciato. Presto si è scoperto, infatti, che quel qualcosa era, addirittura, un container. Le modalità d’azione per lo scarico in mare sembrano provare una certa familiarità con questa pratica, non un caso isolato, insomma. La presenza del container è stata accertata dalla Procura di Livorno, dalla Capitaneria, dagli stessi dei mezzi navali della Nato. La Direzione marittima di Livorno della Guardia Costiera lo ha finanche filmato.
Ne hanno parlato anche i giornali locali, sono seguite interrogazioni in Consiglio provinciale, interpellanze, anche se al di fuori dei confini livornesi la storia è stata presto abbandonata. Non ci sono i soldi per portarlo a galla e guardarci dentro.
Eppure sarebbe l’occasione giusta, il punto di partenza per iniziare a fare luce su quel sistema criminale, tante volte sfiorato dagli inquirenti e mai smantellato veramente, che ha usato e continua a usare il mare come fosse una immensa discarica. Pratica illegale, oggi, che però rappresenta nient’altro che la prosecuzione di una prassi utilizzata almeno fino alla fine degli anni Ottanta, quando nessuna legge impediva lo scarico in mare delle scorie industriali. Il tratto di mare toscano, al largo della costa livornese, dove il mare si infrange sugli scogli delle isole di Gorgona, di Pianosa, dell’isola d’Elba, in pieno “Santuario dei cetacei”, è da sempre un nascondiglio perfetto per i rifiuti industriali.
Le profondità marine inghiottono le cose, non le fanno vedere agli occhi umani, ma ciò non significa che le sostanze tossiche smettano di esistere. In un recente studio dell’Università “La Sapienza”, proprio in quel tratto di mare le sogliole usate come campione sono risultate tossiche: i pesci erano carichi di metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici e bisfenolo A. Sostanze micidiali (in primo luogo gli idrocarburi policiclici aromatici) che l’Organizzazione mondiale della sanità elenca tra i principali inquinanti del mare e considera sicuramente cancerogeni per l’uomo (uno dei peggiori è il benzo(a) pirene). Il bisfenolo A, usato per la produzione delle plastiche, oltre a essere cancerogeno ha effetti neurotossici, tanto che alcune aziende europee l’hanno messo al bando. Uno studio che, alla luce di quanto detto prima, non sorprende nessuno.
Se fino a oggi la mancata individuazione del “corpo del reato” ha rappresentato oggettivamente il limite principale per svelare i segreti nascosti in fondo al mare e proseguire efficacemente le inchieste, questa potrebbe essere la volta buona. Capire cosa nasconde quel container è un diritto dei cittadini e un dovere delle istituzioni. Un contributo fondamentale per fare chiarezza su uno dei peggiori incubi di chi ha a cuore la difesa degli ecosistemi. In quel container che riposa placido a 120 metri di profondità potrebbero esserci margherite o enciclopedie o batterie da cucina, e allora saremmo tutti più contenti. Ma se ci fossero scorie pericolose o, addirittura, radioattive?