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Bonifiche con il trucco in Lombardia
di Antonio Pergolizzi

In Lombardia si è aperto il festival delle bonifiche taroccate. Con tutte le sue industrie smantellate è diventata il teatro perfetto di loschi affari legati al settore del recupero ambientale di aree inquinate. Traffici illeciti di terre derivanti dalle bonifiche e, soprattutto, finte bonifiche usate per mettere in moto imponenti operazioni immobiliari. A scanso di equivoci, va detto che il nostro paese di solito non bonifica affatto. Dei 57 “Siti di interesse nazionale di bonifica”, solo quella di Cengio, in provincia di Savona, è stata completata (seppure tra le polemiche di chi dice che non è stato tolto tutto). Tant’è che l’Italia si deve giustificare dinanzi all’Unione europea per non aver provveduto alla bonifica di alcuni siti inquinati nel milanese. La Commissione europea ha deciso recentemente, infatti, di rinviare il nostro paese davanti alla Corte di giustizia europea per non aver applicato una sentenza del 2004, riguardante la mancata bonifica di tre discariche nei pressi del capoluogo lombardo, in cantieri già di proprietà dell’azienda chimica Sisas (fallita nel frattempo), nei comuni di Rodano e Pioltello, e contenenti rifiuti industriali. Un’area “dove per decenni – si legge in Ecomafia 2010 – si sono prodotti solventi e plastificanti. L’eredità di tale attività sono 350.000 tonnellate di nerofumo, ftalati, mercurio, catalizzatori esausti, residui di distillazione, seppelliti in migliaia di fusti, molto vicini anche alla falda acquifera sotterranea; tant’è che si è continuato per anni a pompare enormi quantità d’acqua per tenere artificialmente bassa la falda ed evitare che i composti chimici pericolosi potessero contaminarla”. Per l’esecutivo europeo, “le suddette discariche contengono rifiuti pericolosi e costituiscono una minaccia per l’aria e le acque locali”.

Le bonifiche, quindi, in Italia non si fanno, e quando si fanno, soprattutto in Lombardia, c’è il trucco. Lo scorso anno è finita agli onori della cronaca l’inchiesta milanese sulla bonifica dell’ex area industriale milanese di Santa Giulia. Il principale indagato è il cosiddetto “re delle bonifiche” Giuseppe Grossi, insieme a tre suoi collaboratori e a Rosanna Gariboldi, ex assessore della provincia di Pavia (nonché moglie del deputato del Pdl Giancarlo Abelli). L’indagine riguarda innanzitutto la creazione di fondi neri per oltre 22 milioni di euro, attraverso la sovrafatturazione dei costi (di almeno il 30%) delle operazioni di bonifica. Soldi poi fatti transitare su alcune società off-shore con sede nei paradisi fiscali, in particolare a Madeira. Secondo i magistrati, oltre a gonfiare i costi, si sarebbe barato pure sulla stessa attività di bonifica. Le diverse relazioni dei tecnici inviati dalla procura hanno evidenziato, fra l’altro, l’inquinamento della falda acquifera sottostante l’ex area industriale, con superamenti dei limiti di legge di alcune sostanze pericolose per l’ambiente e la salute. È stato riscontrato, ad esempio, un livello di triclirometano di 2,80 microgrammi per litro (contro un limite di legge di 0,15). Tra le sostanze trovate dagli esperti nelle falde acquifere ci sono anche il cromo esavalente e il cadmio: “Sostanze a rischio di riduzione della fertilità e di danno ai bambini non ancora nati”, si legge nel decreto di sequestro preventivo firmato dal gip Fabrizio D’Arcangelo. Su alcuni terreni dell’area, inoltre, sarebbero stati eseguiti scavi non autorizzati, nei quali sarebbero finite illegalmente scorie di acciaieria. Altro che bonifica, dunque. I magistrati hanno aperto diversi filoni di indagine, ipotizzando i reati di discarica abusiva, smaltimento illecito di rifiuti e anche avvelenamento delle acque, associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, appropriazione indebita, truffa, riciclaggio e corruzione di pubblici ufficiali.

Più recentemente, lo scorso novembre, sempre in periferia di Milano, il Corpo forestale dello stato e la Polizia giudiziaria mettono i sigilli al cantiere Calchi Taeggi, in zona Bisceglie. Un’area dove stava per nascere un quartiere residenziale di ben 1.300 appartamenti, che avrebbe dato un tetto a circa 5.000 abitanti. Un progetto concepito in grande, con la firma dell’archi-star Norman Foster: due torri d’appartamenti di 30 piani un falansterio di uffici da 40 piani e una altezza fino a 90 metri, un asilo, un parco e ancora negozi, bar, un centro per anziani, un “Centro aggregativo multifunzionale”. Prima, però, di mettere in moto ruspe e betoniere si sarebbe dovuta fare la bonifica, rimuovere la terra inquinata e poi costruire. Condizionale d’obbligo, visto che pare che di bonifica neanche a parlarne. È l’idea che s’è fatta la procura di Milano che, grazie al tenace lavoro del procuratore Paola Pirotta, ha ravvisato gli elementi per sequestrare il cantiere. Qui – proprio dove stavano per costruire – i forestali hanno individuato, fino a trenta metri di profondità, circa 1.800.000 metri cubi di pattume tossico: diossina, idrocarburi, metalli pesanti, solventi al cloruro, arsenico, solventi clorurati, manganese, policlorobifenili (Pcb). Sostanze presenti pure nelle acque di falda. L’area in questione è enorme, circa 260.000 metri quadrati, per decenni utilizzata – quando le leggi erano all’acqua di rose – come discarica legale per rifiuti urbani e soprattutto scorie industriali di ogni tipo. Per l’utilizzo a norma di legge di una simile bomba ecologica sarebbe stato necessario ripulire tutto, cioè sborsare circa 165 milioni di euro, cifra che – assicurano gli inquirenti – supera il valore di mercato dello stesso terreno. Meglio lasciare tutto come stava, adoperarsi per qualche piccolo intervento di facciata, avranno pensato. I reati ipotizzati a carico di cinque indagati sono, infatti, avvelenamento delle acque, omessa bonifica e gestione di discarica abusiva, appunto. Tra gli indagati ci sono funzionari pubblici “che hanno partecipato all’iter autorizzativo” e, ovviamente, i rappresentanti delle società proprietarie dell’ex cava.
La procura intanto accusa il Comune di Milano “di aver dato autorizzazioni illegittime”. In particolare quella che, anziché la bonifica dai costi elevatissimi, consente la “messa in sicurezza dell’area”: un telo di 1,5 millimetri su cui costruire delle sorte di palafitte, “un sistema di sbarramento per bloccare gli inquinanti”. Approvando, quindi, un progetto di bonifica parziale che si sarebbe limitato, secondo i forestali “alla rimozione dello strato superficiale di rifiuti, all’asportazione degli hot spots, punti nei quali erano state individuate particolari anomalie in seno alla massa dei rifiuti e alla successiva messa in sicurezza permanente dell’area isolando i rifiuti sottostanti con il cemento e con un enorme telo di polietilene. La realizzazione delle palificazioni necessarie come sostegno degli edifici – spiegano i forestali – ha peggiorato ulteriormente la situazione, convogliando i percolati dei rifiuti direttamente in falda. Le indagini del Corpo forestale hanno infatti evidenziato nelle acque sottostanti la presenza di molte delle sostanze tossiche (metalli pesanti, arsenico, solventi clorurati, manganese, policlorobifenili e altri composti contenenti diossina) rinvenute nell’area”. Quelli appena raccontati sono solo due esempi che dimostrano come le bonifiche siano diventate l’occasione per far girare un mucchio di quattrini e, soprattutto, per cementificare le uniche aree ancora libere, sotto le mentite spoglie del recupero ambientale. Dopo aver costruito ovunque, i vecchi siti industriali da bonificare, compresi quelli di smaltimento di rifiuti, sono diventati i pochi terreni d’azione dei sempre temerari palazzinari. La Lombardia, come si evince dalle inchieste, è il luogo perfetto, piena com’è di aree industriali abbandonate, dove il valore dei terreni edificabili è sempre alto e gli investimenti sempre ghiotti e dove sguazzano un’infinità di imprese a caccia dell’occasione giusta per piantare pilastri e mattoni. E non importa se sotto è un inferno di veleni.