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In questo numero:

Il futuro che vogliamo è già passato di Marco Moro
Si allunga la strada dell’ecomafia di Diego Tavazzi
Acqua virtuale: lo spreco nello spreco di Paola Fraschini
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Il futuro che vogliamo è già passato
di Marco Moro


The Future We Want si intitola il documento frutto dell’accordo raggiunto tra le delegazioni partecipanti al summit Rio+20. Sarebbe stato più onesto un bel This Was the Future We Wanted, dal momento che lo sviluppo sostenibile è il futuro che volevamo, già vent’anni fa. Ma le valutazioni su Rio+20 non sono unanimi: c’è infatti chi lo considera inutile e deludente e chi parla di fallimento vergognoso. Dopo la surreale conclusione del summit che ha visto la vaga riconferma di un’ipotesi tracciata nel 1992, c’è chi inizia a chiedersi se ha senso parlare ancora di sviluppo sostenibile come progetto globale.
Nell’indirizzare verso la scadenza di Rio il proprio rapporto annuale State of the World 2012, il Worldwatch Institute si è premurato di sottolineare come le valutazioni e le idee contenute nel volume non vadano intese come una proposta di agenda per i lavori di Rio, ma come “proposte per il necessario cambiamento, proposte da prendere in considerazione e su cui lavorare prima e dopo la conferenza”. E si tratterà soprattutto di lavorarci dopo, visti i risultati e i contenuti di State 2012 costituiscono in tal senso un’ampia, autorevole e stimolante traccia di lavoro per i prossimi mesi e anni. Anni in cui avremo finalmente smesso di riporre aspettative sui summit globali e pure sui “round” dei negoziati sul clima.
A chi avesse la curiosità di misurare l’entità del fallimento di Rio suggeriamo di leggere il commento che lo stesso Worldwatch Institute ha pubblicato sul proprio sito: alcuni dei passaggi del documento finale che vengono riportati sono dei capolavori di genericità, inefficacia e totale assenza di coraggio. Per un evento che doveva dire qualcosa di significativo su un tema di importanza cruciale, come le prospettive della green economy, la “calata di braghe” è totale.
In tema di governance (l’argomento che avrebbe dovuto costituire l’altro polo del dibattito a Rio) in fondo un risultato chiaro c’è, ed è che i governi nazionali non sono in grado di dare contributi sul tema – o meglio, non intendono farlo – mentre le istituzioni internazionali non hanno più nemmeno la credibilità per proporsi come soggetto in grado di incidere su questi processi.
In tutto questo, forse i meno colpiti dal flop di Rio e dal linguaggio che lo racconta dovremmo essere proprio noi italiani: i nostri governi recenti, e anche quello in carica, ci hanno abituati a contraddizioni, pavidità, soggezione alle lobby, mancanza di lucidità (perfino mancanza di informazione) e incapacità di comprendere e di incidere su fenomeni che rappresenterebbero una concreta via di uscita alla crisi e, nello stesso tempo, un vero progetto per il futuro del paese e la sua collocazione sullo scenario internazionale.
Troppo pessimismo? Una verifica la si potrà fare a inizio novembre, in occasione degli Stati Generali della Green Economy che si terranno a Rimini, all’interno di Ecomondo 2012. Promossi dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, i lavori preparatori dell’evento stanno coinvolgendo un gran numero di stakeholder in questa sorta di risposta nazionale a Rio+20. Un buon segno, che fa sperare in un esito molto più concreto di quello del summit appena concluso.