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Acqua, un sapere da rifondare di Marco Moro
L'acqua che mangiamo di Paola Fraschini
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L'acqua che mangiamo
Intervista a Marta Antonelli e Francesca Greco
di Paola Fraschini

In questo articolo parliamo di:

L’acqua che mangiamo
Cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamo

a cura di Antonelli Marta, Greco Francesca

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Secondo UN Water, l’organo delle Nazioni Unite preposto alla ricerca e alla cooperazione in ambito idrico, circa 700 milioni di persone in 43 paesi sono colpiti dalla scarsità d’acqua e le prospettive future non sono rassicuranti. Si prevede infatti che, nel 2025, due terzi della popolazione mondiale potrebbero vivere in condizioni di ridotto accesso all’acqua. Ed è soprattutto l’acqua virtuale, quella necessaria alla produzione delle merci, che rischia di prosciugare il Terzo mondo sul quale grava la sempre più pressante domanda occidentale.
Ma cosa sono esattamente l’acqua virtuale e l’impronta idrica? I contributi degli “inventori” di questi concetti, il professor John Anthony Allan del King’s College di Londra e Arjen Hoekstra direttore del Water Footprint Network, sono per la prima volta pubblicati in Italia nel volume L’acqua che mangiamo. Cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamo a cura di Marta Antonelli e Francesca Greco. Volume che verrà presentato il 22 marzo 2013, Giornata Mondiale dell’acqua, durante il seminario gratuito che si terrà all’Università Bocconi di Milano. All’evento parteciperanno le curatrici del volume e numerosi altri esperti sul tema. Facciamo introdurre alle curatrici dell’opera i temi trattati.

 

Partiamo dalla citazione della FAO: “Il mondo ha sete perché ha fame”. Ci spiegate il nesso?

Lo slogan “il mondo ha sete perché ha fame” è stato scelto dalla FAO delle Nazioni Unite come tema per la Giornata Mondiale dell’Acqua del 2012 per esprimere il legame indissolubile che c’è tra il consumo di acqua dolce e la produzione di cibo, cioè tra sicurezza idrica e sicurezza alimentare. L’acqua è un input essenziale nella produzione di cibo poiché è alla base del processo di fotosintesi delle piante. Produrre cibo richiede degli sforzi idrici molto maggiori di quanto immaginiamo: sono necessari 140 litri d’acqua per produrre un caffè espresso, 135 litri per un uovo e si arriva a 15.500 per un kg di carne di manzo. Capire il legame che c’è tra risorse idriche e abitudini alimentari è fondamentale in un pianeta che si trova a fronteggiare una condizione di crescente scarsità in alcune parti del mondo e che, nelle prossime decadi, dovrà soddisfare una maggiore domanda di cibo – e quindi, di acqua – a fronte della crescita della popolazione. Il volume L’acqua che mangiamo raccoglie, in una cornice multidisciplinare, le esperienze dei più grandi esperti italiani in materia di acqua e cibo allo scopo di raccontare ciò che sta dietro al prodotto a ciò che portiamo sulla nostra tavola, per riscoprirne il valore e apprezzarne il contributo della natura. Attraverso i concetti di acqua virtuale e impronta idrica, che rappresentano il filo conduttore dell’opera, il lettore scoprirà che non tutte le gocce d’acqua sono uguali (poiché gli impatti dipendono dalla provenienza dell’acqua e non in assoluto dai volumi utilizzati) e che quindi non sono uguali neanche tutti i pomodori, per esempio, poiché la produzione di un pomodoro irrigato da falda sotterranea in Maghreb è di gran lunga più impattante della produzione di uno stesso pomodoro in un paese dal clima umido come l’Olanda.

 

Parlateci del caso Italia, siamo i terzi importatori al mondo di acqua virtuale? Cosa significa, e soprattutto, perché abbiamo questo primato?

Dall’analisi dei dati elaborati da Mekonnen e Hoekstra nel 2011, due illustri scienziati del Water Footprint Network, è emerso che il nostro paese è il terzo importatore netto di acqua virtuale. Per spiegare questo dato è necessario fare un passo indietro, chiarendo cioè cosa si intende per “commercio” di acqua virtuale. Il commercio di beni (alimentari e non) tra paesi corrisponde di fatto a uno scambio dei fattori di produzione contenuti all’interno di quegli stessi beni. Tra questi fattori c’è naturalmente l’acqua. All’import o export di beni alimentari e industriali corrisponde cioè un trasferimento di acqua da un paese all’altro. Dall’analisi dei flussi di acqua virtuale contenuta nei beni alimentari e industriali in entrata e in uscita dall’Italia, è emerso che le importazioni (cioè l’acqua in entrata che va a formare la cosiddetta “impronta idrica esterna del consumo nazionale”) sono maggiori delle esportazioni. L’Italia è dunque il terzo “importatore” netto di acqua virtuale al mondo, dopo Giappone e Messico, e seguito da Germania e Gran Bretagna.

 

Noi consumatori-cittadini cosa possiamo fare per ridurre/contenere i consumi di acqua virtuale?

Come cittadini, il primo passo fondamentale è informarci. Una volta capito quali sono i prodotti che richiedono più acqua, e una volta capito di che tipo di acqua si tratta, sarà più facile adeguare i nostri stili di vita e anche evitare colpevolizzazioni inutili. Se io mangio carne, mi informerò e saprò che la carne di pollo contiene meno acqua virtuale di quella di manzo. Allo stesso modo, se io volessi proprio mangiare carne di manzo, opterei per quella allevata al pascolo, che ha un impatto minore sulle nostre risorse, in quanto i prati da pascolo crescono grazie all’acqua piovana e quindi non vengono irrigati.

Il secondo passo è attivarci con il settore privato per promuovere all’interno delle grandi e piccole aziende agricole le buone pratiche per la tutela dell’acqua e per la trasparenza sui dati relativi al suo utilizzo.

Un esempio tra tutti è quello di Mutti e Barilla, presenti nel nostro volume, che ci hanno illustrato come hanno ridotto l’uso di acqua nelle loro produzioni o migliorato la tipologia di acqua utilizzata, passando, nel caso di Barilla, da una falda in zona arida a una fonte rinnovabile in zona ricca d’acqua. Nel caso Mutti, diminuendo la quantità di acqua irrigua attraverso sonde di rilevamento dell’umidità del suolo, che comunicavano puntualmente quando irrigare non era necessario.

Il terzo passo è la divulgazione e l’educazione: un bambino che pianta un seme di lenticchia e lo annaffia in casa, capisce quanta acqua serve per far vivere la sua piantina. Saprà quindi quanta acqua è caduta dal cielo per far crescer le lenticchie che nascono nei campi. Porterà con sè quell’idea nel suo percorso di vita e nelle sue scelte di consumo future. La politica dovrebbe promuovere nel settore privato e nelle scuole il messaggio della tutela dell’acqua, in tutte le sue forme. A livello accademico lanciamo una sfida: a quando una cattedra di Politiche Idriche nelle nostre Università? Sarebbe veramente ora!

 

Cosa determina un elevato contenuto di acqua virtuale in un prodotto? Ci sono prodotti di consumo quotidiano la cui acqua virtuale è notevolmente più alta rispetto ad altri?
L’impronta idrica è il risultato di molte considerazioni. C’è infatti l’impronta idrica interna ed esterna, entrambe determinate dai trend di import ed export di tutti i prodotti e servizi che circolano da e per quel paese. Questo concetto può essere applicato al consumo di un individuo, comunità o paese. Per esempio, l’Olanda ha calcolato che la sua impronta idrica “esterna” proviene da paesi specifici come il Kenya, l’India ecc. Di solito non si parla quindi dell’impronta idrica “di un prodotto”, ma si usa invece il calcolo del contenuto di acqua virtuale (nelle sue componenti blu, verde e grigia) di ogni prodotto, che sta a indicare l’acqua che è servita a produrre il bene stesso. L’impronta idrica è invece un indicatore del consumo che ci comunica la provenienza (geografica) e la composizione (blu, verde e grigia) dell’acqua consumata da un individuo, gruppo, o nazione in un dato anno, sommando tutti i beni e servizi che vengono prodotti, esportati, importati e consumati da quell’individuo o comunità nell’anno stesso. è quindi un indicatore mobile, che varia non solo di anno in anno, ma anche di mese in mese.
I due concetti di acqua virtuale e impronta idrica sono spesso confusi e usati in modo inter-scambiabile. Semplificando, l’impronta idrica si applica agli individui (singoli o in gruppo), mentre parliamo di contenuto di acqua virtuale per i prodotti. Sempre tornando sul fatto che i concetti possono essere usati in modo diverso, si possono, per esempio, anche calcolare le importazioni e le esportazioni di acqua virtuale per singola nazione, ma questo non ci darà l’impronta idrica, bensì un numero puro in milioni di metri cubi di acqua. Un elevato contenuto di acqua virtuale è, per esempio, localizzato nelle carni rosse da allevamento intensivo, per via dei vari processi intermedi che consumano molta acqua per nutrire, tenere pulito e mantenere in vita l’animale. Diverso l’impatto di un animale invece nutrito con erba al pascolo o foraggio non irrigato. I vegetali, in generale, per via della presenza di acqua verde in maggiore quantità rispetto alle carni, sono i cibi da preferire in una dieta attenta alle risorse idriche del nostro pianeta.

Cosa possiamo imparare dall’esito dell’ultimo referendum del giugno 2011 e dello spazio che ha aperto nel dibattito italiano? Cosa c’è in comune con l’acqua virtuale?
La storia del nostro referendum sull’acqua pubblica ha radici molto lontane, tocca e abbraccia concetti che vanno oltre l’Italia e raggiungono battaglie parallele in America Latina, come a Parigi, come in Ghana.
La rete europea dei movimenti per l’acqua pubblica oggi è una realtà forte anche grazie al coraggio e la tenacia degli attivisti del nostro movimento.

Sono stati compiuti studi specifici sull’uso dei social network e sulla capillarità con cui è stata condotta la campagna per il referendum acqua pubblica, e i risultati sono sorprendenti, perché grazie a questo processo, nel giro di 10 anni è cambiata la consapevolezza e la coscienza degli italiani rispetto a questo “bene comune”, che prima veniva dato per scontato e non sembrava minacciato da pericoli tanto come lo è oggi.

Cosa vogliamo convogliare di questo “discorso italiano”, all’interno del nostro libro? L’idea di acqua. Vogliamo convogliare l’idea della “ri-appropriazione” da parte di una nazione del suo bene più prezioso. Quello che vogliamo sottolineare “in più”, rispetto al quadro storico politico in cui la campagna acqua pubblica si trova ora, è far capire che la battaglia sull’acqua pubblica si è combattuta per l’acqua “di casa”. L’acqua “visibile” ai nostri occhi. Insomma, si tratta dei nostri 152 litri di consumo giornalieri. Se pensiamo invece che ne consumiamo 3.500 sotto forma di acqua virtuale, capiamo che il nostro impatto come cittadini e consumatori non è causato dall’uso domestico ma dall’uso di beni (alimentari e non) e servizi. Se veramente vogliamo riconnettere i valori che ci hanno portato a dichiarare solidarietà con tutti i popoli del mondo nella congiunta protezione delle acque del pianeta, dovremmo quindi ripartire da qui. Dall’acqua virtuale, dal proteggere le popolazioni locali nelle sedi dove vengono prodotti, da loro per noi, i cereali, la frutta esotica e anche una semplice banana. “Acqua bene comune” rimane un principio da seguire. Ma non solo per l’acqua degli italiani. Per l’acqua di tutti gli abitanti della Terra.