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In questo numero:

Una gita in campagna di Marco Moro
Bioplastiche: un caso studio di bioeconomia in Italia di Paola Fraschini
Una guida all’eco-innovazione di Paola Fraschini
Rinnovabili: operazione verità di Diego Tavazzi
Non di solo cibo si tratta... di Diego Tavazzi
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Non di solo cibo si tratta...
Intervista a Beppe Croce e Sandro Angiolini
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:
La terra che vogliamo 
Il futuro delle campagne italiane

di Croce Beppe, Angiolini Sandro
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Per la maggioranza di noi, il cibo è qualcosa di cui discutere in termini di calorie o, al limite, di qualità e assenza di contaminazioni di pesticidi. In realtà, l’agricoltura, cioè il settore che produce il cibo che arriva sulle nostre tavole, è al centro di una serie di questioni ambientali ed economiche fondamentali per il nostro paese (e per l’intero pianeta). Abbiamo chiesto a Beppe Croce e Sandro Angiolini, autori di La terra che vogliamo, un’opinione in merito.

Almeno nell’Occidente industrializzato (e comunque con numerose eccezioni) l’agricoltura industriale praticata dopo la Rivoluzione verde ha consentito di nutrire un numero crescente di persone. Ha però avuto dei costi ambientali enormi: potreste fare una rassegna di questi guasti?
Sì, non possiamo dimenticare che almeno in un primo tempo, la Rivoluzione verde, che sostanzialmente si basava sulla meccanizzazione, la selezione di poche varietà e l’uso massiccio della chimica di sintesi (fertilizzanti, fitofarmaci, disinfestanti), ha consentito una notevole crescita della produttività. Il pompaggio chimico ha creato l’illusione che si potessero coltivare ogni anno sempre le stesse varietà di grano o di mais, quelle più produttive, senza più necessità di rotazioni, coperture del terreno, consociazioni con altre specie per aumentare le difese delle piante: tutte cose vecchie. La chimica poteva sostituirsi alla complessità delle difese naturali del suolo e degli ecosistemi.
Ma nel giro di pochi decenni, mentre gli incrementi scemano e le piante si sono fatte sempre più deboli (e quindi più bisognose di concimi e pesticidi), sono emersi tutti i problemi. L’agricoltura industriale, quella praticata intensivamente negli Stati Uniti, in Europa, in Cina e ormai in molti paesi tropicali, dal Brasile alla Malaysia, ha dato un significativo contributo all’aumento dei gas serra e di altri gas inquinanti, in particolare il metano emesso dai grandi allevamenti bovini e l’azoto e il fosforo utilizzato nei fertilizzanti, principali responsabili dell’anossia nei mari e nei laghi. L’agrobusiness, quello dell’olio di palma, della soia transgenica e della zootecnia intensiva, è oggi il principale responsabile della distruzione delle foreste tropicali dell’America del Sud e del Sudest asiatico. Che significa distruzione di riserve di carbonio e di biodiversità. E ancora, quel tipo di agricoltura è uno dei principali responsabili del degrado dei suoli in atto in molti paesi, ma anche nella nostra penisola. Basta guardare una cartina dei suoli per rendersi conto di cosa sta succedendo in Sicilia, Sardegna o sulla dorsale adriatica. E vogliamo parlare degli attingimenti di acqua per usi irrigui? Del fatto che, solo per limitarci a due giganti come Cina e India, le acque di falda delle terre più ricche si stanno abbassando di anno in anno? Insomma quel tipo di agricoltura intensiva ormai non può fare che danni.

 

Nel vostro libro presentate una Nuova agricoltura, alternativa al modello tradizionale: quali sono le sue caratteristiche più importanti?
Il modello di agricoltura che proponiamo nel libro si basa sull’adozione di pratiche maggiormente rispettose delle risorse ambientali (per esempio l’agricoltura biologica), sulla valorizzazione dei saperi e delle produzioni di maggiore qualità che abbondano in Italia, e su una visione più ampia e flessibile del ruolo che può svolgere il settore agricolo (per esempio come fornitore di vari servizi, e di materie prime per le filiere industriali).
Accanto a tutto questo è indispensabile rivedere i nostri modelli di diete e di consumo di alimenti, abbattere gli attuali sprechi di cibo, migliorare l’etichettatura dei prodotti alimentari per fare sì che indichino anche il loro impatto sul consumo di acqua e di energia, rivedere il sistema distributivo per favorire le filiere corte e più in generale il consumo di prodotti freschi, e riorientare le politiche e gli aiuti al settore per premiare chi innova nel rispetto dell’ambiente, non chi gode già di rendite di posizione.
Tutto questo ha come conseguenza non solo una maggiore sostenibilità sociale, economica e ambientale del settore agricolo, ma anche un sensibile innalzamento del livello generale della qualità della vita per tutti i cittadini. Senza bisogno di costi aggiuntivi rispetto a quelli attuali.

 

Com’è la situazione dell’agricoltura italiana? C’è spazio per una Nuova agricoltura come quella da voi delineata?
La situazione dell’agricoltura italiana è assai diversificata, ma la tonalità di fondo è molto grigia. Il settore fa fatica a sopravvivere, scontando problemi strutturali di lungo periodo abbinati a errori più contingenti. E alla oggettiva difficoltà di coltivare in situazioni ambientali molto particolari, come ce ne sono tante in Italia. Noi crediamo che per risollevare il settore, che peraltro presenta molti esempi di successo (l’export agro-alimentare ha toccato per la prima volta i 35 miliardi di euro nel 2012) non bastino né il maggior consumo di risorse (acqua, fitofarmaci) né la maggiore concentrazione aziendale, né quella delle imprese trasformatrici. Puntare sulla “Nuova agricoltura” è possibile partendo da ciò che già c’è, cioè dal completamento delle filiere dei prodotti bio e di qualità, fornendo un’assistenza tecnica migliore a chi intende investire in nuovi prodotti e mercati (non dimentichiamo che in tempi di crisi c’è sempre un ritorno di interesse verso il mondo rurale), concentrando le risorse pubbliche su un minor numero di canali ma più qualificati. In molte regioni questo accade già da tempo, occorre la volontà di insistere e di provare anche soluzioni nuove, e soprattutto di valutarne i risultati con metodo ed obiettività, tenendo a mente che l’obiettivo finale è un miglior assetto del territorio rurale nel suo insieme.

 

È un caso che tra chi sostiene la necessità di investire nella ricerca sugli Ogm pochi (o forse nessuno) menzionano mai la questione, scandalosa, degli sprechi di cibo?
Non credo sia un caso. Non perché sospetto malafede, ma più probabilmente per un limite culturale. Molti sostenitori degli Ogm oggi sono quelli convinti che la risposta ai problemi del mondo (primo fra tutti: come sfameremo 9 miliardi di individui?) risieda sempre e comunque nella tecnologia, in un salto di produttività. Guardano alle rese colturali e dicono: dobbiamo aumentarle. Un po’ come faceva l’Enel nei suoi piani energetici per il paese: aumenta il consumo, ergo devo fare più centrali. Senza mai chiedersi se non era prima il caso di massimizzare l’efficienza della rete o di ridurre gli sprechi.

Nel libro riportiamo i dati di uno studio allarmante dell’Unione europea: ogni abitante dell’Unione in media con la sua spesa butta via 180 kg di cibo all’anno. Sapete cosa vuol dire? È come se buttassimo in discarica ogni anno il raccolto dell’intera produzione agricola di due Italie. La FAO parla addirittura dello spreco di un terzo del raccolto mondiale. Ma ci sono molti altri sprechi più sottili: pensate solo a quanti vitelli o polli vengono inutilmente ammazzati ogni giorno per soddisfare la richiesta di una sola parte dell’animale: la gente vuole bistecche o cosce e non consuma più busecche o coratelle. Ma anche se accettassimo di concentrarci sulla questione della produttività, i pro-Ogm non si chiedono se non è il caso, come proponiamo nel nostro libro, di aumentare innanzitutto la produttività di quei paesi, a partire dall’est Europa e dall’Africa, che oggi hanno estensioni enormi rispetto alle nostre, ma con rese più che dimezzate rispetto alle nostre. Aumentare la loro produttività permetterebbe anche di ridurre i circoli viziosi del cibo che dall’Europa ritorna all’Africa.