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In questo numero:

Per un inferno sostenibile di Marco Moro
Is sustainability still possible? di Paola Fraschini
Il Worldwatch nell’Inferno di Dan Brown traduzione di Paola Fraschini
È ancora possibile la sostenibilità? di Paola Fraschini
L’indiano che piange a cura di Paola Fraschini
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È ancora possibile la sostenibilità?
Intervista a Erik Assadourian e Tom Prugh
di Paola Fraschini

In questo articolo parliamo di:
State of the World 2013                                   
È ancora possibile la sostenibilità?
                                   
di Worldwatch Institute
a cura di Bologna Gianfranco
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La risposta a questa domanda ci riguarda tutti, e molto da vicino. Per trovarla iniziate a leggere l’intervista ai direttori del progetto State of the World di quest’anno e partecipate all’evento di presentazione del Rapporto 2013 il 20 settembre a Padova (ore 17.00, Caffè Pedrocchi). Se dovesse risultarvi difficile andare a Padova sappiate che l’incontro sarà trasmesso in diretta streaming sul sito del WWF Italia e sarà anche possibile seguire l’evento su Twitter e inviare i propri quesiti ai relatori partecipando al live tweeting su #Stateoftheworld. Last but not least, leggete il libro. 

Lo State di quest’anno è potente e voluminoso più che mai. Infatti affronta una questione ampia e fondamentale: la sostenibilità (da non confondersi con la sosteniblablablà). Come avete strutturato il progetto? Siete soddisfatti?
Tom Prugh: Abbiamo strutturato il progetto in tre sezioni poiché ci sembrava che tale ripartizione riflettesse la situazione che l’umanità si trova a fronteggiare. Il rapporto inizia mostrando come il termine “sostenibile” sia distorto, abusato e ormai quasi privo di significato. Si fa un gran parlare di “sostenibilità”, anzi di quello che noi definiamo “sosteniblablabla”, praticamente un nonsenso. Abbiamo voluto provare a ridare un significato autentico alla parola sostenibilità, e per farlo abbiamo ritenuto necessario dare ascolto a ciò che la scienza ha da dire circa i limiti della Terra, dove sono e quanto l’umanità sia vicina al loro raggiungimento (purtroppo molto vicina) o, in alcuni casi, li abbia già oltrepassati.
La seconda sezione riporta una serie di politiche e modi di interpretare il nostro rapporto con l’ecosistema globale che, se adottati rapidamente e alla scala necessaria , ci condurrebbero sulla strada della sostenibilità. Nella terza sezione, “Aprire in caso di emergenza”, si suppone (con buona ragione) che queste politiche non verranno adottate abbastanza velocemente o con il giusto slancio per evitare gravi problemi ambientali e sociali, così vengono offerti alcuni suggerimenti per far fronte a questa evenienza.
Il Rapporto 2013 sembra riscuotere successo di pubblico e sta vendendo molto bene, quindi a giudicare da ciò, crediamo di aver catturato un po’ dello spirito dei tempi.

Un primo importante passo avanti sarebbe abbandonare le culture del consumo: il consumismo ha finito con il minare sia il benessere umano sia le funzioni del pianeta a supporto della vita. Ma è un modo di vivere ostinatamente architettato, supportato da enormi somme di denaro in pubblicità, sussidi, agevolazioni… come si può fare per scardinarlo?
Erik Assadourian: Nel breve termine le probabilità di riuscirci sono contro di noi. I 500 miliardi di dollari spesi ogni anno nella commercializzazione del modello di vita consumistico sono sufficienti a mantenere lo slancio al consumismo. Ma nel lungo periodo, il consumismo è condannato. Non possiamo fare della corsa ai consumi il senso della vita di 7 (o 9) miliardi di persone su un pianeta finito.
Ci sono diverse opzioni: attivarsi perché avvenga una transizione verso una cultura della sostenibilità oppure attendere il collasso del sistema e far sì che sia la Terra a costringerci lungo un percorso sostenibile. L’unica differenza sarà la quantità di sofferenza che questa transizione comporterà. Idealmente, i pionieri culturali agiranno adesso per contribuire ad accelerare la transizione e pianteranno i semi di una cultura sostenibile, semi che possono fiorire mano mano che la cultura del consumo appassisce. Ci sono molti modi di agire: dal cambiare le culture su piccola scala, come avviene con i programmi scolastici e le leggi comunali, agli sforzi globali come il servirsi di Hollywood per creare nuovi miti e storie che aiutino a rendere “normale” un modo di vita sostenibile.

 

Le democrazie della maggior parte del mondo industrializzato sono, secondo il teorico politico Benjamin Barber, sistemi progettati “per tenere gli uomini divisi in modo sicuro piuttosto che riunirli in modo fruttuoso”. Un antidoto a tutto ciò è la deliberazione. Ci spiegate brevemente il concetto di democrazia deliberativa?
Tom: Molte tra le democrazie più recenti non sono vere democrazie, ma repubbliche che danno la gran parte del potere e responsabilità decisionale ai rappresentanti eletti piuttosto che lasciare che le persone partecipino direttamente ai processi decisionali su questioni importanti. Un risultato è la paralisi politica e l’elevata vulnerabilità degli eletti alle influenze esterne. Negli Stati Uniti, per esempio, sentenze della Corte Suprema nel corso degli anni hanno stabilito che non vi è nessuna differenza sostanziale dal punto di vista civile tra i singoli cittadini e le aziende che spendono miliardi di dollari di pubblicità politica, lobbying e la propaganda.
Barber chiama questo tipo di democrazia “zookeeping”: sistemi progettati, come avete notato, per tenere separate le persone, in modo sicuro. Ma ci sono grandi potenziali vantaggi nel mettere le persone a confronto nell’arena politica. Paradossalmente, uno dei punti deboli della democrazia liberale non è che chiede troppo ai suoi cittadini, ma che chiede loro troppo poco. Dato che hanno ceduto la responsabilità di valutare i problemi e di impostare la politica agli eletti, gli elettori sono liberi di essere irresponsabili. Possono permettersi posizioni estreme e pericolose invece di cooperare per il bene comune e di tracciare una rotta verso di esso.
Un antidoto a questo è deliberazione. Secondo il sociologo Adolf Gundersen, l’essenza della democrazia deliberativa è “il processo attraverso il quale gli individui si confrontano attivamente sfidando le proprie credenze”. Nella sfera pubblica questo generalmente significa impegnarsi in due o in gruppi più numerosi per discutere dei problemi, confrontarsi, sondare (non attaccare) le reciproche affermazioni e cogliere l’occasione forse anche per cambiare idea! Le persone hanno la possibilità di modificare le proprie posizioni e di forgiarne di collettive. In che senso questo ha a che fare con la sostenibilità? Gundersen dice che la democrazia deliberativa “mette in connessione le persone prima tra loro e poi con l’ambiente, che non vogliono semplicemente visitare questo pianeta ma abitarlo”.
Il concetto di deliberazione non è facile. È una “conversazione”, dice , “non una serie di discorsi”. Conversare implica il coinvolgimento in un ascolto rispettoso, non solo l’attesa di parlare. La ricerca di Gundersen suggerisce che la deliberazione potrebbe aiutarci ad agire in modo collettivo per i nostri interessi collettivi, che è lo stesso che serve alla sostenibilità.

 

I guai sono in arrivo (i cambiamenti climatici, solo per citare la minaccia più visibile), ma ci si può preparare in modo più efficace che non accumulare scorte di cibo in scatola e armi, per esempio costruendo resilienza. Cosa si intende con questo concetto e come si può fare
Erik: Come spiega nel suo capitolo Laurie Mazur “La resilienza, in parole povere, può essere definita come la capacità di un sistema di attenuare le interferenze e resistere adattandosi a esse, senza smettere di funzionare”. Nel futuro ci saranno drammatici cambiamenti, peraltro già in atto: le nostre città saranno sommerse dall’innalzamento del mare, ci saranno migrazioni forzate e la produzione agricola calerà, e in più l’umanità è destinata a crescere di un paio di miliardi di individui.
Assicurarsi che comunità, città e nazioni progettino le loro politiche per essere resilienti: ricostituire le zone umide costiere, bloccare l’urbanizzazione nelle zone pianeggianti, aumentare la biodiversità e ricostituire diversi ecosistemi, per esempio, sarà essenziale per far fronte ai profondi cambiamenti in arrivo.
La buona notizia è che la resilienza può essere realizzata a diversi livelli: le popolazioni tribali per millenni hanno scelto di coltivare campi piccoli, invece di un unico grande appezzamento, anche se questo richiede più lavoro e produce meno cibo. Ma diversificare le coltivazioni si traduce in minori probabilità di morire di fame nelle diverse stagioni. La diversificazione delle economie locali, dei prodotti agricoli e la riduzione della dipendenza dall’infrastruttura energetica globale contribuirà a costruire la resilienza, così come progettare pensando a un mondo più caldo. La città di Chicago si sta già preparando al clima di New Orleans, con l’aggiunta di alberi resistenti al caldo lungo le strade e altre misure necessarie per far fronte all’aumento della temperatura prevista per la fine del secolo. Avremo bisogno di fare questo in tutto il mondo, se abbiamo intenzione di aumentare la resilienza dell’umanità ai prossimi cambiamenti.

 

Come valutate l’efficacia del movimento ambientalista globale? Consigli?
Erik: L’ambientalista Peter Berg ha criticato il movimento ambientalista globale sostenendo che sta sulla difensiva, e va per tentativi senza raggiungere lo scopo. Opponendosi ai cambiamenti climatici, a una nuova centrale o diga, al buco nell’ozono o agli OGM al massimo può rallentare il collasso della civiltà umana. Invece, il movimento ambientalista deve passare all’offensiva e creare una nuova cultura eco-centrica che sostituisca la cultura capitalista dominante centrata sulla crescita e sui consumi. Nel mio capitolo “Per un movimento ambientalista davvero efficace” sostengo che il modo migliore di procedere sarebbe quello di utilizzare le efficaci strategie delle filosofie religiose missionarie: la creazione di una forte ideologia olistica diffusa attraverso una serie di imprese e servizi sociali, da eco-scuole ed eco-cliniche, alle fattorie sociali riabilitative e agli eco-rifugi per i senzatetto. Questo non aiuterebbe solo gli individui e la diffusione di questo modo di pensare e di essere, ma nel lungo termine creerebbe un gruppo che potrebbe guidare la transizione verso un nuovo modo di vivere su e con la Terra.
Questo non significa che le campagne a breve termine debbano cessare: abbiamo bisogno di azioni difensive per guadagnare tempo. Ma questa strategia secolare dovrebbe integrare gli sforzi a breve termine e, idealmente, contribuire a creare un flusso costante di attivisti. Provate a immaginare se gli ambientalisti avessero avuto l’equivalente di una “missione mormone,” dove i giovani raccolgono i soldi dalle loro comunità e famiglie per andare in missione di due anni contribuendo a diffondere la “buona parola” (o nel nostro caso “saggezza ecologica” ) e unirsi alle campagne degli attivisti ambientali locali. Questo potrebbe rivelarsi molto più potente di una classe professionale non profit ambientalista che si guadagna da vivere facendo campagne e quindi a volte sceglie un’azione meno audace al fine di non alienarsi i finanziamenti.

 

Idee per il Rapporto 2014? Speranze?
Tom: L’edizione 2014 di State of the World si concentrerà sulla governance, ovvero i modi in cui gli esseri umani gestiscono i rapporti con il prossimo e con la biosfera. In parecchi casi l’umanità non si sta comportando bene, così abbiamo deciso di guardare a ciò che potrebbe essere fatto per migliorare tali relazioni, sia in politica sia in economia. Includere il regno dell’economia può sorprendere i lettori, ma ci sono grandi differenze, per esempio, nel modo in cui le persone si relazionano tra loro in una società per azioni rispetto a una cooperativa o una società di proprietà dei lavoratori, e anche come le aziende si riferiscono al mondo naturale. Pensiamo che ciò possa fare la differenza in termini di come una cultura sostenibile possa essere.
Speriamo di dare il via con il libro a un progetto biennale sulla governance per la sostenibilità. È chiaro che la sostenibilità non si risolve in una sfida a livello tecnico. Abbiamo tutto il know-how tecnico per arrivarci. Quello che ci blocca sono fattori sociali e politici, e questi devono essere affrontati attraverso le politiche. Vogliamo contribuire a fare crescere un movimento politico di base per amplificare lo slancio verso la sostenibilità, già sostenuto da editori come Edizione Ambiente, l’organizzazione di gruppi come 350.org, e molti altri in tutto il mondo. Se non siamo in grado di realizzarla in questo modo, la natura ci imporrà la sostenibilità alle sue condizioni.