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In questo numero:

Comunicazione, etica e politica di Marco Moro
Sono così piccoli, eppure... a cura della redazione
Negazionismo e disinformazione sul climate change di Paola Fraschini
Cambiamenti climatici e migrazioni a cura della redazione
AR5: completo, autorevole, prudente di Diego Tavazzi
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Cambiamenti climatici e migrazioni
di Michael Renner
a cura della redazione

In questo articolo parliamo di:
State of the World 2013                                  
È ancora possibile la sostenibilità?

di Worldwatch Institute 
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È in corso un acceso dibattito sul fatto che i cambiamenti climatici porteranno a un cospicuo aumento delle migrazioni. L’International Organization for Migration fa giustamente notare che “la migrazione non avviene sempre, perché ai più vulnerabili possono mancare i mezzi per spostarsi”. Quando si verificano esodi causati dal clima, possono essere visti sia come un fallimento nell’adattamento (cioè come un riflesso della vulnerabilità e dell’inadeguata resilienza, e quindi una reazione più “da rifugiati”) o come una strategia di sopravvivenza (uno sforzo per differenziare le fonti di guadagno e creare resilienza). Tuttavia, per potersi spostare, le persone necessitano di risorse finanziarie, e potrebbero aver bisogno dell’accesso a network che facilitino la mobilità e magari preparino un’assistenza nei luoghi di destinazione. Senza questi mezzi fondamentali, le persone possono essere costrette a rimanere nei loro luoghi di residenza, indipendentemente dalle condizioni in cui versano. Va da sé che il mancato trasferimento non equivale all’assenza di impatti negativi.

Secondo la visione convenzionale, persino in un mondo più caldo le migrazioni continueranno a rappresentare una valvola di sicurezza che permetterà alle persone e alle comunità di sopravvivere. La resilienza e la capacità di adattamento delle persone non dovrebbero essere sottovalutate. Tuttavia, è improbabile che la situazione si sviluppi secondo le tendenze del passato, e per diverse ragioni questa potrebbe rivelarsi una visione troppo ottimistica.

Primo, le condizioni caratteristiche di un sistema climatico destabilizzato – con calamità più gravi e più frequenti – non hanno precedenti significativi nella storia dell’uomo. Secondo, è probabile che le società non subiranno un impatto alla volta ma piuttosto più impatti diversi – per esempio inondazioni e siccità – contemporaneamente, con la possibilità di effetti a cascata e feedback imprevisti. È quindi possibile che un numero di individui di gran lunga superiore rispetto a quello attuale sia obbligato a trasferirsi.

Terzo, una maggiore quantità di persone che si sposta limita gli spazi per l’adattamento, dato che sono di più quelle che competono tra loro e con le comunità locali per le stesse opportunità, lavori, risorse e servizi. Quarto, nelle aree di destinazione potrebbe venire drasticamente ridotta la disponibilità ad accettare un afflusso di migranti – una reazione evidente già oggi. Quinto, i pattern migratori potrebbero diventare più definitivi e meno temporanei. Per esempio, i cambiamenti climatici potrebbero alterare gli schemi di spostamento stagionali. Nell’Africa subsahariana, i percorsi per la transumanza usati dagli allevatori nomadi per sopravvivere alle siccità sono già influenzati da condizioni ambientali in rapido cambiamento. In Bangladesh il tradizionale movimento tra diversi char (isole di sabbia e limo nel delta del fiume Padma e nel Golfo del Bengala dove abitano più di 5 milioni di persone) è interrotto da inondazioni improvvise sempre più frequenti e gravi.

Allo stesso modo, di recente i coltivatori di riso vietnamiti che si spostavano in città durante la stagione delle piogge per diversificare le loro fonti di guadagno, sono stati costretti a stabilirvisi in via definitiva perché le inondazioni hanno distrutto i loro mezzi di sostentamento nelle zone rurali. E in Mozambico, le comunità che vivono lungo i fiumi Zambesi e Limpopo si sono sempre spostate periodicamente al di fuori della piana alluvionale per evitare le inondazioni. In seguito a quelle del 2000, 2001 e 2007, particolarmente disastrose, il governo ha incoraggiato i residenti a trasferirsi stabilmente. Ma la gente che ha trovato una nuova dimora non ha i mezzi per sostentarsi; dipendendo dagli aiuti, potrebbe trovarsi nella condizione di doversi spostare nella nuova capitale, Maputo, o nel confinante Sudafrica.

Tra i vari gruppi di persone che abbandonano la propria casa, alcune categorie sono ben conosciute. La legislazione internazionale riconosce la condizione di rifugiati internazionali (sebbene non sempre i governi si accollino le loro responsabilità). Al contrario, le persone che emigrano all’interno dello stato a cui appartengono godono di molte meno protezioni, e a volte di nessuna. Sono stati fatti degli sforzi per dare ad altri gruppi di profughi – persone sradicate dalla loro terra da calamità o da progetti di sviluppo – maggiore visibilità, ma solitamente rimangono in balia di aiuti umanitari ad hoc, sempre che ne ricevano qualcuno. […]

Per ora, la distinzione tra forme obbligate e volontarie di migrazione rimane un punto chiave nella legislazione internazionale e nelle politiche dei governi, e il mancato riconoscimento delle nuove categorie di migranti limita la capacità del mondo di gestire adeguatamente la situazione.

Un numero crescente di esperti ammette che sarà sempre più difficile categorizzare i profughi. I problemi ambientali sono spesso strettamente intrecciati con condizioni socioeconomiche come povertà e diseguaglianza di possesso di terre, dispute per le risorse, progetti di sviluppo mal pianificati e governance deboli. È poi più difficile distinguere con chiarezza tra spostamenti di persone volontari e obbligati. È più utile pensare in termini di un continuum di cause e fattori, invece che di distinzioni lapidarie. In effetti, come spiegato nell’edizione 2012 del World Disasters Report della Croce Rossa, l’uso del termine “migrazione mista” è sempre più frequente. Per una migliore comprensione delle dinamiche e per una discussione più produttiva sulle politiche possibili, è essenziale che esperti di migrazioni, di rifugiati e di ambiente si confrontino tra loro con mente aperta… continua  a leggere su State of the World 2013, capitolo 31

 

Michael Renner è senior researcher presso il Worldwatch Institute.