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In questo numero:

Cambiamenti climatici e lavoro di Marco Moro
Efficienza energetica, in arrivo opportunità per imprese e cittadini di Francesco Petrucci
Ma quali erbacce! di Paola Fraschini
Sepolti dalla plastica? No, grazie di Diego Tavazzi
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Sepolti dalla plastica? No, grazie
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:

Sepolti dalla plastica
Lo spreco funzionale
Adriano Paolella

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Sepolti dalla plastica: già il titolo dell’ultimo Freebook, scaricabile gratuitamente dal sito, chiarisce quali sono gli effetti di uno dei fenomeni più caratteristici del nostro mondo.
Come scrive Adriano Paolella, autore dello studio, la storia della plastica comincia nel XIX secolo. La prima materia plastica artificiale venne infatti sintetizzata nel 1865. In realtà non era del tutto sintetica, poiché veniva prodotta modificando la cellulosa, il principale costituente del legno. In onore del suo inventore, l’inglese Parkes, venne chiamata “parkesina”. In seguito diventò famosa come celluloide, e si affermò come supporto per pellicole fotografiche. Dopo il passaggio del secolo, nel 1907 il chimico belga Leo Baekeland realizzò il primo polimero completamente sintetico, la bachelite. Nei decenni successivi le materie plastiche si moltiplicano, ma la produzione e il consumo di massa della plastica si affermarono solo alla fine degli anni Quaranta. Da allora, le quantità prodotte e consumate sono incrementate in modo esponenziale. Nel 1950 ne furono prodotte 1,5 milioni di tonnellate, nel 2011 i milioni sono stati 280. Basta in effetti dare un’occhiata alle cose che usiamo ogni giorno per capire che la plastica è un materiale ubiquo. Che tuttavia, nella grandissima maggioranza dei casi, porta con sé una sorta di paradosso, che trova nei prodotti monouso l’esempio più lampante: si usa un materiale duraturo per un tempo ridottissimo (in alcuni casi anche meno di un minuto). Si tratta di un enorme spreco di risorse (per produrre la plastica si usa il petrolio) che genera enormi quantità di rifiuti e sostanze inquinanti. Paolella si concentra in particolare sul cosiddetto Pacific Trash Vortex, una regione del Pacifico in cui, grazie al gioco delle correnti, confluiscono i detriti plastici che dalla terraferma arrivano invariabilmente in mare. Come dimostrato da svariate ricerche, i frammenti di plastica, carichi di sostanze tossiche, vengono ingeriti dagli animali. Gli inquinanti cominciano così a risalire la catena alimentare, e gli organismi al vertice della catena stessa (l’uomo e i grandi predatori) sono esposti al rischio di fenomeni di bioaccumulo e bioconcentrazione di sostanze tossiche.
Quella della plastica narrata da Paolella è solo una delle storie che si possono raccontare quando si cerca di ragionare sugli impatti ecologici delle attività umane. La nostra ingegnosità, che sta alla base del progresso tecnologico ed è da questo rinforzata, individua sempre più velocemente nuovi modi per sfruttare le risorse naturali e superare le loro carenze. Solo per fare un esempio recente, le tecnologie di fratturazione idraulica e di perforazione orizzontale stanno consentendo di sfruttare giacimenti di idrocarburi finora inaccessibili.
Quasi sempre, però questi avanzamenti si sono verificati senza tenere nella debita considerazione gli impatti (che spesso rientrano nella categoria “cose che non sapevamo di non sapere”, e quindi possono essere individuati solo dopo che si sono verificati) e le interazioni tra di loro (è infatti difficilissimo, se non impossibile, individuare tutti i meccanismi di retroazione e di amplificazione innescati dalle attività antropiche che interagiscono con i sistemi viventi e non).
Uno dei tentativi più importanti per superare questi limiti concettuali è il paper del 2009 A safe operating space for humanity. Gli autori – tra cui James Hansen, autore di Tempeste – individuano nove aree (cambiamento climatico, acidificazione degli oceani, riduzione dello strato di ozono stratosferico, cicli del fosforo e dell’azoto, perdita della biodiversità, utilizzo globale di acqua dolce, cambiamenti nella destinazione d’uso dei suoli, carico degli aerosol, inquinanti chimici) fondamentali per il funzionamento del Sistema Terra, e per ogni area determinano un “confine” che non dovrebbe essere superato se si vogliono evitare conseguenze pericolose e impreviste. Per inciso, va ricordato che per tre aree, quelle del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e ciclo dell’azoto il limite di sicurezza è già stato superato.
Questo approccio, teso all’individuazione dei confini planetari, è alla base di Natura in bancarotta di Anders Wijkman e Johan Rockström (quest’ultimo è lead author del paper del 2009). Nel testo, oltre a una spiegazione chiara delle diverse aree e delle interazioni che sussistono tra di loro, si trova un’analisi precisa e aggiornata della questione demografica e delle problematiche del settore agricolo e di quello energetico, i due comparti che più contribuiscono a modificare la biosfera e che interagiscono in maniera complessa con la demografia. Un’ampia parte del volume è dedicata alle soluzioni dei problemi.
Si possono così trovare una proposta di ridefinizione delle teorie economiche, che per i due autori sono viziate da presupposti obsoleti, e del Pil, la principale metrica oggi utilizzata per definire i progressi economici. Wijkman e Rockström non risparmiano le critiche all’attuale sistema finanziario, e concludono ponendo domande fondamentali ma per ora eluse: davvero per essere felici è necessario che l’economia cresca senza fine, in modo da poter consumare senza sosta cose ed esperienze di cui probabilmente non abbiamo davvero bisogno, considerato che il nostro pianeta è finito?
La nostra ingegnosità, si chiedono i due autori, non potrebbe finalmente essere utilizzata per cercare la felicità in altro modo?