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In questo numero:

Verso la materia rinnovabile a cura della redazione
Crescita, sostenibilità e bioeconomia di Christian Patermann
Cambiare il rapporto tra l’economia, il territorio e le persone di Catia Bastioli
Il triplice vantaggio della bioeconomia di Antonio Di Giulio
Il ritorno al mare del Portogallo di Ilaria Nardello
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Cambiare il rapporto tra l’economia, il territorio e le persone
di Catia Bastioli


La sfida che ci sta di fronte, quella per far ripartire l’economia, è una rivoluzione industriale che rovescia il rapporto con il territorio che ha prodotto la sindrome Nimby. Per oltre due secoli abbiamo assistito a una corsa a impianti sempre più grandi, con l’ambiente ridotto al ruolo di miniera e di discarica, con un inquinamento crescente, con una contrapposizione sempre più evidente tra lavoro e salute. Ancora oggi paghiamo pesantemente questa eredità; è arrivato il momento di voltare pagina non solo diminuendo l’inquinamento delle produzioni, ma ripensando il sistema produttivo per integrarlo con il territorio. Questo vuol dire che non si può più progettare lo sviluppo a tavolino, con formule anonime da replicare, con poche varianti, in tutto il pianeta. La bioeconomia, l’economia che integra le risorse della biosfera e quelle dell’ingegno umano, si fonda sulla conoscenza e sul rispetto del territorio e delle sue particolarità. Solo una conoscenza profonda delle possibilità e dei bisogni di ogni singolo luogo, unita a una ricerca continua per utilizzare nel modo più efficiente le risorse che possono essere rese disponibili, senza creare squilibrio, permette di impostare uno sviluppo che tenga assieme le ragioni dell’economia, dell’ambiente e di chi abita il territorio. Si tratta, per esempio, di insediare tecnologie avanzate non in luoghi ad alta vocazione agricola o turistica, ma in siti che subiscono i contraccolpi della deindustrializzazione e che possono scegliere una nuova opportunità: un’integrazione innovativa tra il mondo dell’agricoltura e quello dell’industria. Non con progetti che calano dall’alto e concentrano le attività in un’unica grande impresa, ma con un modello a rete in cui l’impresa fa da catalizzatore per un grande numero di iniziative diffuse: cooperative di giovani agricoltori che si organizzano per fornire la materia prima, altre strutture imprenditoriali che seguono il processo nelle varie fasi, immaginando di utilizzare i materiali prodotti come soluzioni operative per risolvere problemi, fornire servizi, aumentare la qualità della vita. Materiali che devono essere studiati per ridurre l’impatto ambientale del loro uso, assicurando un vantaggio per tutti e una capacità competitiva per la collettività, che si riconosce nel progetto e si impegna per il suo successo. Penso per esempio ai prodotti innovativi che oggi incominciamo a essere in grado di produrre in settori che vanno dalla lubrificazione (migliorando le prestazioni ed evitando i rischi di inquinamento di acqua e suolo connessi a prodotti derivati del petrolio non in grado di biodegradare) ai plastificanti per polimeri, derivanti da fonte rinnovabile e privi di rischi, in sostituzione degli ftalati (oggetto di osservazione per gli effetti sul sistema endocrino); dagli pneumatici (che assicurano minore resistenza al rotolamento, diminuendo i consumi) alla cosmesi; dagli antiossidanti agli erbicidi naturali. Si tratta di mettere a sistema il territorio, l’università, i centri di ricerca, le persone impegnate su questi temi per creare un effetto moltiplicatore dei benefici, a partire dal rilancio dell’occupazione. È un modello che permetterebbe di evitare gli errori del passato... > segue [per leggere l’intero articolo bisogna registrarsi sul sito]

Catia Bastioli è AD di Novamont e Inventore Europeo 2007 per le bioplastiche.