Le nostre case e le nostre città possono consumare meno e a costi contenuti. Bisogna solo imparare a utilizzare l’energia che ci serve in modo più intelligente. Secondo Federico Butera, professore ordinario di Fisica Tecnica Ambientale presso il Politecnico di Milano e autore in grado di coniugare gusto della scrittura e grande competenza, il comfort ci pone di fronte al dilemma dei suoi costi economici, sociali e ambientali. Dalla caverna alla casa ecologica, un autentico classico sul tema dell'abitare e della sostenibilità in versione aggiornata e illustrata con oltre 300 immagini, è il racconto della lunga strada verso il comfort domestico a partire dalla caverna, passando dalla casa dell’antica Roma e dalle dimore medievali e rinascimentali per giungere fino alla vita quotidiana in classe A.
Qual è il prezzo dell’attuale livello di comfort domestico?
Non è un solo prezzo che paghiamo, purtroppo. Uno è il contributo al cambiamento climatico, attraverso le emissioni di CO2 dovute alla combustione di fonti energetiche fossili. E non è un contributo da poco, considerato che, includendo anche gli edifici del terziario, pesa per il 25% delle emissioni mondiali da combustibili fossili e per oltre il 40% delle emissioni nei paesi sviluppati.
Un altro è una delle conseguenze del primo: l’instabilità e l’insicurezza geopolitica derivante dalla localizzazione della maggior parte delle riserve. Possiamo ricondurre al petrolio e al gas la maggior parte delle guerre dopo lo sgretolamento dell’Unione Sovietica.
Il terzo prezzo, legato ai primi due, è la dipendenza del nostro comfort domestico da fattori non controllabili e lontani: se un oleodotto o un gasdotto in Russia o in Libia viene interrotto per un po’ di tempo restiamo al buio e al freddo.
Scaldarsi e illuminarsi costa sempre di più, ma il prezzo più alto da pagare non è quello attuale, è quello futuro. Quello che faremo pagare ad altri, quelli che ci seguiranno.
La qualità della vita domestica deve e può migliorare, per noi e per tutti gli abitanti di questa Terra, senza per questo aumentare le emissioni. Come?
La risposta più sintetica è: sostituendo l’intelligenza alla forza bruta. Ovvero sostituendo la potenza del fuoco (fossile) con la conoscenza, cioè con la progettazione o la ristrutturazione appropriata degli edifici, con tecnologie di riscaldamento e raffreddamento più efficienti e con la regolazione e il controllo. Se un edificio è progettato o ristrutturato in modo da richiedere poca energia per garantire il comfort, e si usano sistemi di climatizzazione efficienti, la “potenza del fuoco “ occorrente è poca, e può facilmente ed economicamente ricavarsi dalle fonti energetiche rinnovabili.
Questo approccio è indispensabile non solo nei paesi sviluppati (e purtroppo gli USA lo adottano solo a parole), ma anche e soprattutto in quelli in via di sviluppo. Basti pensare cosa succederebbe se 5-6 miliardi di persone ottenessero (finalmente) lo stesso comfort di cui godiamo noi, con gli stessi consumi: le emissioni di CO2 crescerebbero tanto e con tanta velocità da rendere del tutto irrilevanti gli sforzi che si stanno facendo in Europa per ridurle. La Cina è l’esempio più evidente di questo pericolo.
I ricercatori del Santa Fe Institute, in New Mexico, dimostrano l’esistenza di una legge di scala anche all’interno della città. In un contesto di pianificazione urbana sostenibile a un sistema di maggiori dimensioni può corrispondere un consumo minore di energia pro capite. In natura i coralli crescono dove esistono già delle ramificazioni, nei mammiferi la crescita porta a un rallentamento del metabolismo (ovvero il consumo), lo stesso meccanismo di risparmio si sviluppa nelle città. Per sua esperienza, cosa ne pensa? È davvero così? Qualche esempio concreto di sistema ecologico urbano?
Indubbiamente, interventi a scala di quartiere o urbana permettono di ottenere lo stesso livello di comfort in casa con consumi più bassi, se si fa uso di tecnologie quali la cogenerazione o la produzione di biogas dai liquami, per esempio. Anche l’impiego di fonti rinnovabili discontinue, quale quella solare, a scala di quartiere o urbana può essere associato più facilmente ed economicamente a sistemi di accumulo reale o virtuale (vedi smart grid). Ma questo non basta: è il modello di funzionamento della città che va riformato, e con esso il modello economico che fa funzionare la nostra società. Proviamo a esaminare un edificio come un sistema vivente, con il suo metabolismo. Da una parte entra energia, acqua, oggetti vari, cibo, e dall’altra esce CO2, acqua sporca, rifiuti organici e inorganici. Se cambiamo scala, e guardiamo al quartiere, il suo metabolismo ha gli stessi input e output, e lo stesso alla scala della città. La prima cosa da fare è quella di ridurre gli input, e conseguentemente gli output, a tutte le scale. Si potrebbe obiettare che alla scala urbana e di quartiere c’è un fattore metabolico che non si trova alla scala di edificio, la mobilità. Non è proprio così. Ci si muove anche in casa ma la mobilità casalinga è meglio organizzata. Non ci verrebbe mai in mente di tenere il sale o lo zucchero in bagno e lo spazzolino da denti in salotto; e cerchiamo di avere la cucina vicino alla stanza da pranzo. In altre parole, la distribuzione degli oggetti e delle funzioni è razionalizzata al fine di avere ciò che serve “a portata di mano”. La stessa logica dovrebbe governare la pianificazione urbana: i negozi che vendono gli alimentari, che servono ogni giorno, dovrebbero trovarsi a poca distanza dall’abitazione; il luogo di lavoro, dove vado ogni giorno, dovrebbe pure essere vicino al luogo in cui mi riposo e dormo; anche il cinema dovrebbe essere vicino. Invece, tutto il cibo è concentrato in un supermercato più o meno lontano, per raggiungere il posto di lavoro devo fare chilometri, per andare al cinema ho un multisala all’altro capo della città. Ed è così che oltre il 30% dell’energia fossile che si consuma in una città serve per spostarsi (di più, oltre il 50% nelle città del sud, dove si consuma meno per riscaldare).
Comunque, qualche passo nella direzione giusta comincia a farsi. C’è qualche comunità (insediamenti urbani di poche migliaia di abitanti) che in centro e nord Europa ha raggiunto la totale autosufficienza energetica mediante fonti rinnovabili. Si può citare Güssig in Austria, l’isola di Samsø in Danimarca, Hollich in Germania.
Non è un caso che questo risultato sia stato raggiunto in piccoli centri: il rapporto fra chi governa e chi è governato è più stretto e tutto è a portata di mano.
Quali sono gli edifici del futuro?
Sono quelli che riescono a produrre con fonti rinnovabili non solo l’energia occorrente per la climatizzazione e l’acqua calda ma anche quella che serve per fare funzionare tutte le apparecchiature elettriche dell’abitazione e magari qualcosa di più. Sono quelli che riescono ad accumulare, almeno in parte, l’eccesso di energia rinnovabile prodotta, per cederla quando occorre: devono far parte di un sistema di accumulo distribuito. Sono quelli in cui la domotica è fortemente presente e sono capaci di dialogare con gli edifici vicini o lontani, integrati in una smart grid. Sono quelli costruiti con materiali a basso contenuto energetico, durevoli e riciclabili. Sono edifici ad alto contenuto di conoscenza incorporata: quella che ci è voluta per progettarli e quella che ci vuole per farli funzionare.
Non sono gli edifici tutti di vetro.