All’università ci insegnano che il design industriale nasce nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale con la progettazione e il disegno di manufatti da replicare in numerose copie (uno degli esempi più luminosi sono le ceramiche Wedgwood).
Ma è stato nell’Ottocento e nei primi del Novecento che i designer hanno avuto l’opportunità di disegnare davvero qualsiasi cosa, inventando prima di tutto loro stessi, la propria identità culturale e filosofica. Di fatto tenendo in mano la forma e le funzioni dei landscape domestici e urbani degli ultimi 200 anni.
Certo, non tutti gli oggetti circolanti erano il frutto di una mente progettante: molto design anonimo (si veda la mostra “Hidden forms” tenutasi nel 2014 alla Triennale di Milano) ha compiuto eccellenti intrusioni nella nostra vita, ma “dal cucchiaio alla città” i designer molto hanno potuto.
Ed è stato questo molto – più di qualsiasi rivoluzione industriale – che ha trasformato la vita umana: le piccole e grandi innovazioni disponibili negli Usa nella prima metà del Novecento hanno generato un incredibile aumento del benessere e della qualità della vita.
Le voci critiche che si sono sollevate a partire dagli anni Settanta – basti pensare a giganti come Victor Papanek ed Enzo Mari – sono rimaste confinate in un’area intellettuale, all’interno di un dibattito culturale destinato a pochi. Poi negli anni Ottanta, stanchi e consumati dal “tutto” che era stato disegnato, i designer si sono presi la briga di ridisegnarlo. In quegli anni il mercato dell’offerta non si poneva molte domande, chiedeva quasi solo forme: questo doveva fare il design. Il diktat era interpretare la forma, che doveva essere seduttiva e meravigliare: una fiera delle vanità neppur lambita dai primi dibattiti in Italia e in Europa sui limiti dello sviluppo. […]
I primi dibattiti sulla raccolta differenziata dei materiali – risalenti a circa 20 anni fa – si sono posti anche come un tentativo, raramente compreso fino in fondo, di semplificare una realtà obesa, onnivora e quindi complessa.
Nel mentre sono arrivate le direttive sui rifiuti a cambiare la faccia delle politiche pubbliche e delle responsabilità anche private in materia di gestione rifiuti (che ancora non si chiamavano risorse). In particolare fu il Libro verde sulle politiche integrate di prodotto (Ipp) del 20013 a chiamare in causa l’importanza del ciclo di vita e quindi il valore dell’ecodesign.
In effetti, già dalla fine degli anni Novanta l’Europa ha richiamato a una riflessione basata sulla necessità di integrare le politiche ambientali per migliorare prodotti e servizi nell’arco del rispettivo ciclo di vita. Il nodo era come ottenere, nel modo più efficiente possibile, prodotti più ecologici: allora si parlava molto di rivoluzione imminente prodotta dai materiali riciclati che si proponevano di entrare nella nostra vita come rimateria e come farli utilizzare dai consumatori.
Per sperare in un futuro più luminoso – e meno gravido di conseguenze da gestire – la partita da giocare era quella. Ma purtroppo i designer che si accostavano a quel tema erano pochissimi perché gli imprenditori attivi in quel mondo e capaci di ricorrere a loro erano radi […]
È però negli anni Novanta che si inizia a chiedere al designer un nuovo compito: progettare nuovi processi e servizi ecologici, non più solo di prodotti. Con la fine dell’edonismo reaganiano, il designer ha l’opportunità di reinventarsi – nel ruolo e funzione – in chiave sostenibile. E per passare dal prodotto al servizio trova in Ezio Manzini il suo più noto profeta.
Sono gli anni in cui di fatto emetteva i primi vagiti la necessità di esprimere creatività non solo nel progettare merci, ma anche percorsi, interazioni, reciprocità, nuovi paradigmi e funzioni sostenibili…
Continua a leggere su Materia Rinnovabile n. 12, settembre-ottobre 2016