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In questo numero:

La strategia dello scarafaggio di Arianna Campanile
L’invasione delle ultracase di Paola Fraschini
Suolo grigio cemento di Diego Tavazzi
La novità della collana normativa di Costanza Kenda
La tartaruga paziente, la lepre incredula, e i fondi del caffè di Diego Tavazzi
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Suolo grigio cemento
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:

Grandi opere contro democrazia
di Roberto Cuda

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Frutto di un convegno organizzato a Roma da Fondazione Lelio e Lisli Basso e da Fondazione Responsabilità Etica, Grandi opere contro democrazia analizza da diverse angolazioni il tema del consumo di suolo per opera di una strategia predatoria che ci sta letteralmente togliendo la terra da sotto i piedi. Abbiamo chiesto a Roberto Cuda, curatore del volume, di fare il punto su una questione che viene spesso drammaticamente sottostimata.

Cominciamo dal titolo, “grandi opere vs democrazia”: davvero le grandi opere in Europa e nel mondo sono in conflitto con la democrazia?
In gran parte è così, a meno che non seguano percorsi pubblici e trasparenti lungo tutto il processo decisionale, cosa che accade raramente. Il risultato è la creazione di meccanismi poco trasparenti e luoghi informali dove si prendono le vere decisioni, presieduti da costruttori, banche ed esponenti politici. Tutto al riparo da un reale controllo democratico.

Decisori che operano in regime di monopolio, rendite colossali, scarsa trasparenza dei processi decisionali ed elevata discrezionalità dei processi di selezione, anche per via di condizioni di (spesso presunta) emergenza, indebolimento dei meccanismi sanzionatori e di controllo: secondo la letteratura scientifica, sono questi i fattori che segnalano elevati rischi di corruzione. Nelle grandi opere italiane sembrano esserci tutti. È così?
Sì. Aggiungerei tre elementi. Il primo riguarda i conflitti di interesse. In Italia ci sono banche che fanno i concessionari (e li finanziano), concessionari che fanno i costruttori e politici che stanno nei consigli di amministrazione dei concessionari. Il caso di BreBeMi è esemplare. Il secondo è il modo opaco con il quale viene finanziata la politica. I due terzi dei finanziamenti privati della politica provengono dal mondo delle costruzioni, ma le erogazioni non sono affatto trasparenti, senza contare i numerosi casi di corruzione vera e propria. Infine non si fanno valutazioni costi-benefici indipendenti, trasparenti e comparative, che sono fondamentali per valutare l’utilità e l’impatto complessivo di un’opera, anche sul piano ambientale.

A che punto è il “nuovo corso” del ministro Delrio? Ci sono stati scarti rispetto alla linea delineata con la famigerata Legge Obiettivo del 2001, e ribadita negli anni dai vari decreti Salva Italia, Cresci Italia, Sviluppo, Sviluppo 2, Del Fare, Destinazione Italia e Sblocca Italia?
Aspettiamo di vedere la versione definitiva del Codice Appalti, con tutta la normativa attuativa. E soprattutto aspettiamo il nuovo Documento pluriennale di programmazione, atteso a breve, che dovrebbe integrare tutti gli interventi infrastrutturali: li si capirà molto di più del cosiddetto “nuovo corso”. Sicuramente c’è stata una svolta nella politica infrastrutturale del paese, se non altro si è deciso di fare programmazione, un aspetto che mancava da troppo tempo con i risultati che vediamo. Detto questo, siamo piuttosto lontani da quelle opere “utili, snelle e condivise” di cui parla il ministro. Come spieghiamo nel libro con dati e numeri, sono state eliminate opere assurde come la Orte-Mestre ma ne restano in piedi altre come la Campogalliano-Sassuolo, la Pedemontana Lombarda, l’Alta velocità Milano-Genova e altre. Il problema è che molte opere rientrano nella vecchia legislazione (la legge Obiettivo) e parliamo di circa 150 miliardi, ovvero quelle che hanno avuto un iter presso il Cipe e tra le quali potrebbe pescare il nuovo Documento. È un problema, perché si tratta di infrastrutture passate in assenza di programmazione e di valutazioni indipendenti.

Hai dedicato “Anatomia di una grande opera” alla BreBeMi. Il libro è stato pubblicato nel 2015: a distanza di quasi 3 anni, a che punto sta l’Autostrada Brescia-Bergamo-Milano?
A oggi il traffico è ancora inferiore alla metà delle previsioni più prudenti, quelle del Piano finanziario 2014, nonostante il proliferare di sconti e agevolazioni di tutti i tipi. In tre anni ha accumulato perdite per 153 milioni e, a detta della stessa azienda, non si arriverà al pareggio prima del 2019. Solo gli oneri sul debito di 1,8 miliardi si aggirano sui 90 milioni all’anno. Senza il contributo pubblico di 320 milioni il piano finanziario dell’infrastruttura difficilmente starebbe in piedi.

Si parla spesso di decommissioning degli impianti nucleari. Si parla invece poco del dopo-Grandi Opere: cosa rimane di una Grande Opera? Ci sono casi virtuosi?
Dipende da quale punto di vista. Ci sono certamente opere che si sono dimostrate utili e finanziariamente sostenibili. Poi bisognerebbe vedere se, considerando il bilancio ambientale complessivo e le possibili alternative, si arriverebbe a una valutazione ugualmente positiva. Per questo è decisivo fare analisi costi-benefici complete, trasparenti e indipendenti. Nel caso delle nuove autostrade avremo in gran parte nastri d’asfalto poco utili, che sigilleranno per sempre terreni fertili e che rischiano di pesare sulle spalle dei contribuenti per decenni. Ma anche sull’Alta velocità non c’è molto da stare allegri, soprattutto su alcune tratte, come la Milano-Torino-Lione, che pesano ancora di più sulla collettività.