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In questo numero:

Green economy fai-da-te di Marco Moro
L’Italia della green economy di Paola Fraschini
I confini (planetari) della terza crisi di Diego Tavazzi
Il nuovo mercato delle e-bike di Michele Bernelli
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L’Italia della green economy
Intervista a Silvia Zamboni
di Paola Fraschini

In questo articolo parliamo di:
L'Italia della green economy
Idee aziende e prodotti nei nuovi scenari globali
di Silvia Zamboni
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Crisi economica, crisi energetica, crisi sociale, crisi ambientale: la green economy potrebbe fornire al nostro paese una via d’uscita sostenibile. Per esempio, lo sapevate che con latte, uova, cera d’api e agrumi si possono produrre vernici ecologiche e mangiasmog? E che con lana di pecora, miele, birra, sfalci e alghe si possono produrre ottimi materiali edili? Esistono anche biopannolini, “ecobalere” e gomme da masticare biologiche. Tutto rigorosamente made in Italy. Parliamone con Silvia Zamboni, autrice de L’Italia della green economy.

L’Italia della green economy presenta i risultati del Premio Sviluppo Sostenibile promosso dalla Fondazione omonima, con l’adesione del Presidente della Repubblica. Come nasce l’idea del Premio?
L’idea, all’origine del Premio, di promuovere l’innovazione ecologica di processi produttivi, di beni e di servizi, che abbiano anche potenzialità economiche di diffusione e di incremento dell’occupazione, è parte di un progetto più ampio, come spiega nella Prefazione al mio libro Edo Ronchi, Presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile ed ex ministro all’Ambiente, che ha fortemente creduto nell’opportunità di istituire il Premio. Questo progetto ha al centro la risposta innovativa da dare all’attuale crisi economica, all’insegna di un “global green New Deal”, ovvero un new deal ecologico mondiale, “un nuovo patto globale capace di affrontare, contestualmente, sia la crisi climatica ed ecologica, sia la recessione mondiale con un processo di riforma dello sviluppo comunemente chiamato green economy”.
Partendo dalla doppia constatazione che la proposta per superare la crisi che circola oggi in Italia, trasversale a tutti gli schieramenti politici, è “rilanciare la crescita economica, senza se e senza ma”, mettendo “in secondo piano, come se fosse un dato trascurabile” il dato che la crescita dell’economia tradizionale è “ormai palesemente insostenibile per la capacità di carico dell’ambiente”, Ronchi propone di affrontare la questione chiedendosi “se esistano in questa crisi possibilità reali per innovare e cambiare la qualità dell’economia, per realizzare una riforma dello sviluppo, verso la sostenibilità ecologica”. La risposta, positiva, che dà a questa domanda trova conferma nel “nuovo indirizzo generale dell’economia, caratterizzato dalla ricerca di un’elevata qualità ecologica, per questo chiamata green economy”. Anche se non si tratta di un processo univoco, come sottolinea Ronchi, perché permangono e in taluni settori sono ancora prevalenti, modelli di produzione e di consumo insostenibili, al punto che “anche nel 2010 le emissioni mondiali di gas serra sono cresciute di ben 1,5 miliardi di tonnellate, con un tasso di crescita non sostenibile”, puntualizza avvertendo però che: “sbaglieremmo a non cogliere le tendenze positive che sono in atto e che creano un contesto di vento a favore per una riforma dello sviluppo in direzione ecologica. La stessa crisi climatica, per esempio, non è più vista solo come vincolo e costo: per molti è anche occasione di nuovo e diverso sviluppo, in particolare nei settori emergenti delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Molte imprese si impegnano per prodotti e processi produttivi puliti, fanno dell’elevata qualità ecologica un elemento decisivo della propria competitività anche in Italia... È, infatti, in crescita la domanda di beni e servizi più attenti all’ambiente, più sani e desiderabili, ma anche utili per far riprendere l’economia... Interpellati il 12 e il 13 giugno 2011 da un referendum sulla gestione pubblica dell’acqua, risorsa naturale fondamentale, e sul blocco del nuovo programma nucleare, gli italiani hanno risposto con un’affluenza del 57% (erano 15 anni che i referendum non raggiungevano il quorum!) e con una travolgente valanga del 95% di voti favorevoli. “Consensi così ampi su queste problematiche non si erano mai avuti in passato”, commenta Ronchi nella Prefazione. E prosegue sostenendo che “nell’era di una globalizzazione che rende in tal modo pressanti e visibili fattori di crisi ecologica e di scarsità ambientale, non dovrebbe essere più così difficile promuovere la conversione da un’economia dello spreco a una del risparmio di energia e di risorse naturali. Anche perché tale conversione può beneficiare di tecnologie già disponibili, capaci di creare maggiore e migliore occupazione”.
Ecco allora che l’obiettivo del Premio di contribuire a fare conoscere imprese, servizi, programmi e prodotti sostenibili, e a promuoverne la diffusione, si inscrive in questo percorso più ampio nel segno di un’economia sostenibile.
Avendo fatto parte della giuria selezionatrice in tutt’e tre le edizioni del premio, posso dire che tra i prodotti segnalati ci sono davvero casi di riconosciuta eccellenza mondiale. Così come non mancano esperienze che si prestano agevolmente a essere assunte come buone pratiche da imitare.

Quali sono i criteri impiegati per selezionare i prodotti innovativi e le scelte imprenditoriali più eccellenti?
Nelle prime tre edizioni realizzate finora, dal 2009 al 2011, il premio è stato riservato ai settori dell’energia (fonti rinnovabili ed efficienza energetica), gestione dei rifiuti (trattamento, riciclo e recupero di materia ed energia), servizi e prodotti innovativi. Le aziende che vi concorrono sulla base di autocandidature vengono selezionate tenendo conto sia dell’efficacia dei risultati ambientali conseguiti, con particolare riferimento alla mitigazione della crisi climatica; sia del contenuto innovativo di una nuova tecnica o di una nuova pratica o, in caso di tecnologie e pratiche preesistenti, della loro ottimizzazione a seguito delle misure e degli interventi migliorativi apportati; sia dei risultati economici, con particolare riferimento alla remunerazione dell’investimento effettuato e all’incremento occupazionale; sia, infine, delle possibilità di diffusione, in particolare in Italia. Per ogni edizione, in ciascun settore, la giuria segnala dieci aziende, tra le quali ne sceglie una a cui assegna il Primo Premio.
Per quanto riguarda le eccellenze imprenditoriali emerse rimando ovviamente alla lettura del libro, perché sarebbe troppo lungo elencarle tutte: sono 81 i casi che ho analizzato con capitoli dedicati, che in alcuni casi contengono al loro interno anche approfonditi riferimenti ad altre aziende partner. A questi capitoli si aggiunge un’ampia panoramica, compresa all’interno della mia Introduzione, delle aziende eccellenti che, pur non avendo attraversato l’esperienza del Premio, appartengono di diritto alla storia e alla realtà della green economy in Italia.
In questa sede mi limiterò quindi a indicare le tipologie di servizi e prodotti segnalati finora, che vanno da complessi impianti, protetti da brevetti internazionali, a prodotti di consumo quotidiani, anche tascabili, come la gomma da masticare biologica importata dalle foreste pluviali dello Yucatan.
Le tessere di questo puzzle dell’economia verde made in Italy comprendono prodotti innovativi per l’edilizia, come vernici atossiche e malte prodotte con ingredienti naturali, pitture e materiali ceramici che decompongono alcuni inquinanti presenti nell’aria; sistemi costruttivi che riducono i consumi di energia per il riscaldamento e il raffrescamento, o che impiegano nanotecnologie; innovative applicazioni di teleriscaldamento e altri sistemi che per la climatizzazione invernale ed estiva impiegano la geotermia a bassa entalpia, le pompe di calore e le fonti rinnovabili, o che si affidano alla versatilità e duttilità dell’intelligenza artificiale. Sono presenti anche imprese, grandi e piccole, del settore del solare fotovoltaico, dell’eolico e dell’uso del biogas. Nel campo delle biomasse c’è chi le impiega per produrre biocarburanti di seconda generazione e chi ne ricava energia per l’autoconsumo. Ampia la rappresentanza nel settore dell’efficienza energetica, dagli elettrodomestici a basso consumo alla cogenerazione, ai sistemi di illuminazione pubblica, fino agli uffici eco-efficienti e alla macchina agricola seminatrice concimatrice salvaenergia. Nel settore dei rifiuti ci sono società che riducono la produzione di rifiuti, altre attive nel campo del recupero e riciclo della plastica post-consumo e/o degli sfridi industriali, o che la plastica la producono eliminando l’uso di derivati del petrolio, producendo plastica biodegradabile. Alla voce riciclo, variamente declinata, troviamo aziende che a diverso titolo hanno a che fare con la raccolta e il riuso di materiale ricavato dal recupero dei rifiuti di apparecchi elettrici ed elettronici e chi si è specializzato nel ricollocare sul mercato computer e stampanti obsoleti e/o rigenerati. C’è poi chi ha reagito all’emergenza rifiuti campana buttandosi nella produzione di cartone da riciclo. E non mancano macchine e impianti per attività di riciclaggio dei rifiuti, anche pericolosi, con abbattimento degli inquinanti grazie a innovativi processi di pirogassificazione o di combustione senza fiamma. Un paio di aziende eccellono per la produzione di compost e biogas dai rifiuti organici, un’altra ha brevettato un prodotto per la raccolta differenziata domestica dei rifiuti umidi. Completano il quadro i prodotti innovativi, sia dal punto di vista dei materiali sia da quello del processo di lavorazione.

Oggi il motto, ripetuto con insistenza in ogni circostanza, è “rilanciare la crescita economica” per uscire dalla crisi. Secondo te non c’è il rischio che la continua produzione di nuovi beni e servizi possa condurci al collasso ambientale?
Alcuni, specie in Europa, teorizzano che ormai solo una “decrescita” dell’economia potrebbe evitare una catastrofe ecologica…
I limiti alla capacità di carico del pianeta sono evidenti, i cambiamenti climatici già in atto ne sono l’espressione più esplicita. Il collasso ambientale, in primis quello climatico, è dietro l’angolo. Ci vuole davvero un impegno a livello mondiale per scongiurarlo. Da questo punto di vista, la fuoriuscita del Canada dal Protocollo di Kyoto è un pessimo segnale in direzione opposta alle necessità del Pianeta, al pari dei non esaltanti risultati della conferenza sul clima di Durban. D’altra parte penso che teorizzare il ricorso alla decrescita sia, letteralmente, pura teoria, che non ha possibilità di ascolto, né riscontro alcuno nell’economia reale dei paesi in via di sviluppo, che vogliono recuperare sul deficit di comfort e di consumi rispetto all’Occidente da più lungo tempo industrializzato, mentre nei paesi occidentali, flagellati dalla crescente disoccupazione, parlare di decrescita in fase di conclamata recessione sembra un nonsenso, o per certi versi una tautologia, e non aiuta a programmare, fattualmente e con fiducia, la conversione verso la sostenibilità.
Nella Presentazione al mio libro scritta da Ralf Fücks, co-Presidente della Heinrich-Böll-Stiftung (la Fondazione legata ai verdi tedeschi), alla fine della crescita viene opposta l’alternativa della crescita con la natura. Più creativamente, si parla di “crescita dei limiti”, ossia di possibilità di espandere il potenziale insito nelle risorse naturali grazie alle nuove tecnologie e al fatto che il pianeta Terra non è un sistema chiuso ma riceve un costante apporto di energia proveniente dal sole “che finora abbiamo usato solo in minima parte; questo apporto esterno di luce e calore è la base di ogni processo produttivo in natura”. Secondo Fücks “parlare di fine della crescita economica è finzione allo stato puro. Piuttosto, ci troviamo al centro di un gigantesco ciclo di crescita, che proseguirà nei prossimi decenni... Mentre noi discutiamo di limiti della crescita, le popolazioni di Asia, America Latina e Africa stanno per realizzare il sogno di una vita migliore, una vita simile a quella che conduciamo noi, con case moderne, alimenti differenziati, televisione, computer e telefoni, abiti alla moda e viaggi in paesi stranieri. Niente e nessuno potrà distoglierli da questi obiettivi. L’unica domanda da porsi è se questa enorme produzione di nuovi beni e servizi conduca al collasso ambientale o se possa essere guidata sui binari della sostenibilità... L’esistenza di limiti alla crescita di natura ecologica è fuori discussione, limiti che si possono superare solo a prezzo di pesanti crisi ecologiche”, scrive Fücks. Tuttavia, i limiti possono essere riconsiderati alla luce della possibilità di disaccoppiare lo sviluppo dal consumo irreversibile di natura e da un impatto inquinante sull’ambiente oltre la carrying capacity del Pianeta. Perché, secondo Fücks, “i limiti di carico degli ecosistemi non rappresentano in assoluto dei limiti per una futura crescita dell’economia. I limiti naturali alla crescita non corrispondono a grandezze immodificabili. Si possono ampliare in due modi: attraverso un aumento dell’efficienza delle risorse (produrre di più con meno), così come attraverso la sostituzione delle materie prime finite con le energie e le materie prime rinnovabili, in altre parole attraverso fonti della ricchezza potenzialmente inesauribili”.
È questa la strada maestra dello sviluppo sostenibile. A cui va aggiunta, sul piano culturale, la consapevolezza del bisogno di un approccio sobrio ai consumi, che metta in primo piano la qualità rispetto alla quantità, e l’equità sociale, a livello locale e globale, nell’accesso a beni e servizi.

E non c’è il rischio che il guadagno ottenuto in termini di efficienza venga poi annullato dai consumi crescenti?
Nei paesi anglosassoni e in Germania è in corso il dibattito sul cosiddetto rebound effect, ovvero il pericolo che il guadagno ottenuto in termini di efficienza venga cancellato dai consumi crescenti. In effetti, come ammette Fücks, ci sono numerose prove empiriche che confermano l’incombenza di questo rischio. Tuttavia, aggiunge, “non è una legge di natura che il consumo di risorse aumenti più velocemente dell’efficienza delle risorse... Un fattore centrale per il consumo di natura è il prezzo di beni scarsi. Da questo punto di vista il prezzo delle fonti di energia deve aumentare come minimo in maniera proporzionale alla produttività energetica, per non incentivare l’incremento dei consumi”.
Concordo quindi pienamente con Fücks che l’innovazione tecnologica da sola non basta. Affinché essa ci consenta di raggiungere gli auspicati obiettivi ecologici, oltre che di un diverso orientamento culturale, c’è bisogno concretamente anche che la politica democraticamente legittimata intervenga a guidare i mercati. Abbiamo tutti sotto gli occhi le conseguenze della deregulation dei mercati finanziari, che si è aggiunta, aggravandola, alla finanziarizzazione esasperata dell’economia. Se, per citare il titolo di un libro di Giorgio Ruffolo, è vero che, nonostante tutto e in particolare nonostante la crisi dei debiti sovrani, “il capitalismo ha i secoli contati”, alternative al capitalismo al momento non ce ne sono. Il che non vuol dire che gli squilibri, gli eccessi, per non dire gli sfracelli, prodotti dal neoliberismo vadano contrastati attraverso l’attività di regolamentazione da parte dello Stato, che resta decisiva, anche con riferimento alle questioni ambientali. Un’attività che in Europa ha una sua particolare proiezione a livello dell’Unione europea, da rafforzare aldilà degli egoismi nazionali, anche in funzione di obiettivi strategici di sostenibilità, come, per fare solo un esempio, la creazione di una smart grid comune europea in grado di raccogliere e distribuire l’elettricità prodotta dal vento al nord con quella solare prodotta al sud (ndr, a tal proposito si legga Energia dal deserto, a cura di R. Vigotti).
 
Di fronte alle nuove dinamiche nel mondo dell’impresa e della società civile, cosa può, cosa deve fare la politica?
Per citare ancora una volta Fücks, per “evitare qualsiasi rischio di grave crisi, l’economia mondiale in futuro può svilupparsi solo all’interno di paletti ecologici, che vanno definiti sulla base della capacità di carico degli ecosistemi. Compito basilare della politica resta fissare la cornice di riferimento per imprese, investitori e consumatori. Cruciale è stabilire, a livello nazionale, europeo e mondiale, limiti decrescenti per le emissioni di anidride carbonica. Contemporaneamente c’è bisogno di una ‘dinamica ecologica dal basso’ sospinta da imprese high-tech e agricoltori biologici, ricercatori e investitori, associazioni ambientaliste e di consumatori. Una politica verde deve puntare a sostenere questa ‘trasformazione dal basso’ ”. Ce la faremo? Non è detto. “Che il passaggio a una crescita sostenibile avvenga per tempo è una scommessa aperta”, ammette il copresidente della Fondazione Heinrich-Böll, non escludendo che si possa perdere la corsa con la crisi ambientale.
D’altra parte quali alternative reali e praticabili ci sono per affrontare le sfide poste dal 21° secolo in questo contesto, in Occidente, di crisi economica? La crisi andrebbe anzi colta come uno stimolo ulteriore, un’opportunità di cambiamento a favore di una qualità diversa dello sviluppo, che concili rispetto della carrying capacity ambientale della Terra con equità sociale ed economica. Le aziende e le esperienze individuate dal Premio sviluppo sostenibile ci stanno già provando. E dimostrano che un altro modo di produrre è possibile.