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Per (non) segare il ramo su cui siamo seduti di Diego Tavazzi
Efficienza energetica a cura di redazione
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Per (non) segare il ramo su cui siamo seduti
Intervista a Gianfranco Bologna
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:
Sostenibilità in pillole
Per imparare a vivere su un solo pianeta

di Bologna Gianfranco
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Non passa giorno senza che si si accumulino nuove prove che certificano la vastità degli impatti dell'azione umana sugli ecosistemi. E, allo stesso modo, assistiamo quotidianamente allo spettacolo di una politica distratta e quasi del tutto incapace di indirizzare l'attività dei settori produttivi. In questo quadro, la nota positiva è che le soluzioni ai problemi sono a portata di mano e, spesso, sono anche redditizie.
Abbiamo chiesto a Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia e autore di Sostenibilità in pillole, di raccontarci evoluzione e ultimi sviluppi delle discipline della sostenibilità.

Parliamo di sostenibilità, quali sono a suo giudizio i cambiamenti più importanti che si sono verificati a livello politico e sociale? Ci sono dei momenti “spartiacque”? E se sì, quali?
Ho avuto la fortuna di vedere quasi nascere le idee e le riflessioni che sono state alla base del concetto della sostenibilità, in particolare nel decennio degli anni Settanta, frequentando assiduamente Aurelio Peccei, fondatore e presidente del Club di Roma (fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1984), figura dalle eccezionali qualità umane e intellettuali. Inoltre l’amicizia con altre figure molto significative in questo campo, direi dei veri e propri pionieri, come Lester Brown, Norman Myers, Wolfgang Sachs, mi ha dato tantissimo per comprendere al meglio il complesso concetto di sostenibilità.
Nell’ambito politico sociale i cambiamenti che si sono verificati sono stati certamente legati anche ai grandi eventi culturali che si sono avuti in questi decenni, soprattutto da quando la comunità internazionale ha iniziato a comprendere che l’impatto dell’inquinamento da noi prodotto era transfrontaliero, non si limitava cioè al singolo paese che lo produceva (la natura, come ben sappiamo, non rispetta i confini politici e amministrativi!). La progressiva acquisizione della dimensione globale degli effetti che noi produciamo nei sistemi naturali, il concetto di limite da non oltrepassare per non superare la capacità di carico degli ecosistemi che ci sostengono, uno sviluppo sociale ed economico che tenga in dovuto conto il capitale naturale ecc. sono stati concetti che progressivamente si sono diffusi anche grazie alle grandi conferenze ONU sull’ambiente (dalla prima del 1972 sull’ambiente umano a Stoccolma fino all'ultima del 2012 sullo sviluppo sostenibile a Rio de Janeiro) e ai grandi rapporti come “I limiti dello sviluppo” voluto dal Club di Roma nel 1972, il rapporto della Commissione Brundtland, “Il futuro di noi tutti” 1987, la strategia IUCN, UNEP, WWF “Caring for the Earth. A Strategy for Sustainable Living” del 1992, i quattro rapporti dell’IPCC sul clima ecc. nonché l’approvazione delle grandi convenzioni internazionali sui temi ambientali e di sostenibilità, come la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, quella sulla biodiversità e quella relativa alla lotta contro la desertificazione. Tutti questi eventi, questi rapporti, queste convenzioni hanno accresciuto la sensibilità nei confronti dell’ambiente e della sostenibilità del nostro impatto sui sistemi naturali ma non si è diffusamente tramutato da un’ampia e generica sensibilizzazione alla consapevolezza diretta dell’assunzione di responsabilità circa il proprio ruolo e la propria impronta sulla natura.

È di questi giorni la notizia secondo cui la crisi economica avrebbe comportato una consistente riduzione del traffico nelle città italiane. Come per un riflesso automatico, subito si sono alzate le voci di chi auspica più veicoli in movimento, segnale visibile del benessere di un paese. Questo è solo uno dei tanti esempi di quella che potrebbe essere chiamata “mentalità del più è meglio” che, basata sull’idea della crescita illimitata, trova una legittimazione nel concetto di Pil. Se il Pil cresce, va tutto bene, se cala, dobbiamo preoccuparci. A che punto è la ricerca di approcci incentrati su quadri concettuali differenti, che raccontino la realtà in modo diverso da quello basato sulla crescita infinita e sul Pil?
L’approccio del “di più è meglio” è profondamente sbagliato e si scontra decisamente con le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali presenti sul nostro pianeta. Credo che, dopo decenni di accurata documentazione scientifica sugli effetti del nostro ruolo come attori dei cambiamenti globali causati negli equilibri dinamici degli ecosistemi dell’intero pianeta, questo approccio risulti palesemente errato, per quanto sia ancora dominante in buona parte dell’establishment politico-economico. I classici indicatori di performance economica come il PIL, sono da anni posti in seria discussione e con argomentazioni valide e motivate.
È ormai urgente cambiare registro e impostare nuovi indicatori necessari a una diversa visione economica, basata proprio sul concetto di limite, sul superamento della dimensione totemica della crescita e sulla necessità di imparare a vivere nei limiti del solo pianeta che abbiamo a disposizione. In questo ambito ormai l’economia ecologica ha prodotto impostazioni e innovazioni teoriche e pratiche, concrete e fattibili. Se non si imposta un sistema economico basato sulla centralità del capitale naturale sarà difficile avviare concretamente percorsi virtuosi che ci conducano alla sostenibilità.
La natura, i sistemi naturali, la biodiversità costituiscono la base del nostro sviluppo sociale ed economico. Dobbiamo perciò impostare modelli economici che siano fondati su questi presupposti. Il dibattito e la prassi internazionale che si sta attivando in merito sono molto interessanti e vanno dai sistemi di contabilità ambientale ed economica integrata (Systems of Environmental and Economic Accounting, il SEEA delle Nazioni Unite, approvato lo scorso anno) ai processi per andare oltre il Pil nell’ambito dell’Unione europea, ai nuovi indicatori di benessere e progresso che si stanno discutendo e praticando in diverse nazioni nel mondo, compresa l’Italia, solo per segnalare delle concrete testimonianze.

Dopo l’articolo del 2008 a firma di Tim Lenton e altri, “Tipping elements in the Earth’s climate system”, che individuava una quindicina di aree critiche nel sistema climatico, nel giugno del 2012 è stato pubblicato su Nature “Approaching a state shift in Earth’s biosphere”, a firma di Anthony Barnosky e altri, che indaga sulla possibile esistenza di un punto critico planetario. Nonostante le critiche, è sempre più plausibile che le attività umane e le loro interazioni con i sistemi che supportano la vita sul nostro pianeta possano spingere il sistema Terra ad assestarsi in un nuovo equilibrio, non necessariamente confortevole per la nostra specie. A che punto è la ricerca sui punti critici? E che messaggio arriva (o dovrebbe arrivare) ai decisori politici e alla società?
La ricerca sui punti critici è veramente affascinante e coinvolgente e sta riguardando diversi ambiti disciplinari a partire dalla climatologia per giungere all’ecologia. Non è un caso che l’ultimo “Global Biodiversity Outlook 3” pubblicato nell’anno internazionale della biodiversità, il 2010, dall’UNEP e dalla Convenzione sulla diversità biologica si basa molto sull’analisi dei punti critici che potrebbero essere raggiunti in diversi ecosistemi e che ovviamente riguardano anche gli effetti dei cambiamenti globali e climatici che ne sono spesso all’origine. Il lavoro del paleoecologo Anthony Barnosky e degli altri studiosi che lo hanno firmato, è veramente interessante e fornisce un quadro generale stimolante sull’argomento e sullo sviluppo delle future ricerche.
Il messaggio che dovrebbe arrivare ai decisori politici e che, in questi ultimi decenni, abbiamo perso troppo tempo a discutere e a non agire mentre, nel frattempo, le ricerche scientifiche ci stanno dimostrando che la situazione è più difficile, complessa e pericolosa di quanto ci potessimo aspettare. In questo quadro l’unica strada da non perseguire è proprio quella dell’inazione.

Il settore della produzione alimentare, e quello della carne in particolare, oltre a essere uno di quelli che emette più gas serra e inquinanti, consuma anche enormi quantità di acqua e di combustibili fossili. Si stanno però moltiplicando alternative più sostenibili: dai produttori di “bistecche vegetali” agli agricoltori urbani, in tutto il mondo si sta verificando una trasformazione dei modi di produrre il cibo che mangiamo. Si tratta in un certo senso della dimostrazione di uno degli assunti base dell’economia, quello per cui la scarsità e i costi elevati innescano dei meccanismi di innovazione che portano a trovare soluzioni nuove. Questo vale per tutti i settori, da quello della produzione alimentare a quello dell’energia, dal numero di figli alla mobilità: si può davvero sperare che l’innovazione tecnologica sia in grado di risolvere i problemi in cui ci siamo infilati? O si tratta di un’“astuzia del demonio”, che ci porterebbe solo a consumare di più ma... in modo “ecocompatibile”?
L’innovazione è certamente molto importante e va perseguita nella direzione di ridurre significativamente l’input di materie prime ed energia nella produzione di beni e servizi. Si tratta dell’innovazione che migliora l’efficienza, un fattore fondamentale per avviare percorsi meno insostenibili degli attuali. Ma è di tutta evidenza che l’efficienza non basta per avviare le nostre società sulla strada della sostenibilità. Abbiamo infatti bisogno della sufficienza e chiunque si trovi in situazioni di sovra consumo (e praticamente lo sono buona parte degli abitanti dei paesi ricchi, industriali e tecnologizzati e le élite dei paesi di nuova industrializzazione) deve ridurre i suoi consumi e la sua impronta sui sistemi naturali.
L’efficienza da sola non risolve i problemi. Basta ricordare che dal 1981 al 2010 l’intensità energetica globale è calata di circa il 20% ma ciò non significa affatto che la crescita della produzione e degli impatti ambientali sia terminata. Di fatto, nello stesso periodo, il consumo energetico primario globale è aumentato, passando da 6,6 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio a 12 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio.