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In questo numero:

La transizione non è una passeggiata di Marco Moro
Un’opinione pubblica più attenta di Diego Tavazzi
Le storie dell’ambiente sono le nostre storie di Paola Fraschini
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Le storie dell’ambiente sono le nostre storie
Intervista a Serenella Iovino
di Paola Fraschini

In questo articolo parliamo di:

Ecologia letteraria
Una strategia di sopravvivenza

di Serenella Iovino

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Se l’ambiente non sopravvive, non sopravvive nemmeno l’individuo. Dovrebbe essere scontato, addirittura banale, ma a giudicare da come straziamo il paesaggio inondandolo di rifiuti e di cemento, calpestando la vita, anche la nostra, pare chiaro che il concetto di ambiente come bene comune, di tutti, non sia poi così diffuso. Non siamo in grado di comprendere il nesso tra biologia e cultura, ecco perché non siamo in grado di comprendere che la vita umana dipende dalla salute dell’ambiente. Per fortuna in nostro soccorso arriva l’ecocriticism/ecologia letteraria, metodo interpretativo che studia le relazioni tra il testo letterario e la natura in tutte le sue sfaccettature. Il futuro di noi tutti non è ancora stato scritto e la cultura è la nostra salvezza, non dimentichiamolo. Scambiamo due chiacchere con Serenella Iovino, autrice di Ecologia letteraria e docente di Letterature Comparate presso l’Università di Torino.

Ai tuoi studenti insegni a leggere la Natura come testo, giusto? E che cosa raccontano i nostri corpi e le nostre terre?

Quando si guardano le definizioni canoniche, si legge che l’ecocritica è lo studio delle interrelazioni tra ambiente e letteratura. Questo però, lo capiamo subito, è piuttosto generico. L’ecocritica, infatti, nasce come studio dei testi letterari naturalistici e proto-ambientali (Henry David Thoreau è il suo classico per eccellenza), ma progressivamente si divincola da questi territori. Nei suoi sviluppi, l’ecocritica si è concentrata sulle letterature che mettono in luce i conflitti per le risorse e la giustizia sociale, il modo in cui l’ambiente si lega alle questioni di genere, gli intrecci di corpi, violenza e potere nei paesi post-coloniali, le catastrofi ambientali, il nostro rapporto con gli animali non umani, i cyborg, gli alieni, e tutte le espressioni della vita “altra” dall’umano. Dire che l’ecocritica legge la natura è dunque giusto, ma meglio ancora sarebbe dire che legge le nature di un mondo plurale, e tutti i loro intrecci materiali e discorsivi. Di recente abbiamo sviluppato una linea interpretativa, chiamata “ecocritica della materia”, che cerca di allargare la categoria di testo a tutte le forme materiali. Pensiamo ai corpi tossici delle terre contaminate dall'ecomafia. Se li interpretiamo come testi, leggeremo nelle loro cellule e nelle loro storie “narrazioni materiali” che raccontano intrecci di sostanze inquinanti, flussi economici, malessere sociale, poteri politici, e visioni culturali. Ogni corpo e ogni ambiente o paesaggio ci raccontano queste storie materiali: un esempio è il bellissimo libro di Marco Armiero, Le montagne della patria. Credo che provare oggi a leggere queste storie non sia solo un appassionante esercizio critico, ma anche una necessaria forma di alfabetizzazione.

All’interno del panorama universitario italiano siete in tanti a lavorare su questi temi? Come reagiscono gli studenti ai tuoi corsi? Possiamo credere in loro per uno sviluppo sostenibile?
Nel panorama universitario italiano non siamo in tanti a lavorare su questi temi; però siamo già di più di quanti non fossimo nel 2006, quando è uscito Ecologia letteraria. Da qualche anno, con tenacia e coraggio, si organizzano tavole rotonde, premi letterari, dibattiti e (benché non direttamente sotto l’etichetta di “ecocritica”) anche corsi accademici. Per me, che insegno questi argomenti da oltre un decennio, è una grande soddisfazione, perché l’impatto sugli studenti è enorme. Mi capita puntualmente di ricevere messaggi di ragazzi e ragazze (e anche di molti adulti) che mi dicono quanto riflettere su questi temi abbia mutato il loro modo di vedere, e quindi il loro stile di vita. Insomma, c’è una necessità di capire il mondo in cui viviamo, e il coinvolgimento esercitato dall’unione di scienza e storie, tipico dell’ecocritica, è fondamentale. È qui che fiorisce quella “benedetta irrequietezza” di cui parlava Paul Hawken in un libro, Moltitudine inarrestabile, che consiglio spesso ai miei studenti, specie quando mi chiedono perché, nonostante le battaglie culturali e sociali dell’ambientalismo, le cose sembrano così lente a cambiare. Sembrano lente, perché i canali che ci trasmettono le informazioni spesso non danno conto della moltitudine di individui e associazioni per cui questo cambiamento è già in atto.
L’università, e la scuola in genere, devono assecondare questa voglia di consapevolezza con tutti i loro mezzi, coltivando il più possibile gli approcci interdisciplinari. A questo proposito vorrei ricordare un convegno su ecocritica, cibo e contaminazioni, organizzato dalla professoressa Daniela Fargione a Torino nel dicembre scorso. Questo convegno ha visto parlare insieme letterati, attivisti, rappresentati di Slow Food, giornalisti ambientali, sociologi, ecolinguisti e climatologi (c’era anche Luca Mercalli). L’aula era gremita, ed è stato un piacere confrontarsi con un’audience così motivata.

Parliamo di “umanità” delle donne, d’acchito può sembrare non attuale come tema ma in realtà è una conquista recente. Sono notizie di questi giorni che la Tunisia ha modificato la Costituzione stabilendo la parità tra uomo e donna di fronte alla legge e che la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per la consuetudine a trasmettere unicamente il nome di famiglia paterno (ebbene sì: la nostra è una cultura sessista)… ci dai una lettura ecocritica del fenomeno? Durante la tua bella lezione a Montpellier citi Vandana Shiva, fisico nucleare ed ecofemminista, ci spieghi il nesso tra femminismo e ambiente?
Ebbene sì, la nostra è una cultura sessista: già il fatto che ci sia voluta una sentenza della Corte di Giustizia europea per denunciare questo squilibrio tra il “nome del padre” e quello della madre ne è la dimostrazione più eloquente. Da sempre l’ecocritica femminista si occupa di come donne e nature non umane siano rappresentate nelle gerarchie sociali, insistendo sui legami tra soggetti oppressi o discriminati, siano essi donne, omosessuali, animali, bambini, minoranze etniche, razziali o religiose, portatori di disabilità. Anche qui, trovo particolarmente interessante l’approccio dell’ecocritica materiale, che ci invita a leggere una società e le sue meta-narrazioni attraverso i corpi dei suoi soggetti. I corpi delle donne — corpi manipolati, “normalizzati”, offesi, estetizzati, violati o soppressi — sono testi che ci dicono molte cose di una società, dei suoi modelli culturali, delle sue gerarchie di valore, delle sue strutture economiche, delle sue politiche. Che proprio i corpi femminili siano un testo eloquente della cultura politica (e quindi economica e sociale) dell’ultimo ventennio è quasi scontato. Il nesso tra femminismo e ambiente, in chiave ecocritica, sta proprio nella volontà di interpretare tutti questi testi (linguistici e corporei) con l’intento di promuovere pratiche di liberazione.
Un’ultima cosa. Uno dei temi che l’ecocritica femminista mette più in luce è il nesso etico e creativo tra umani e animali. Il 16 gennaio 2014, la primatologa Dian Fossey avrebbe compiuto 82 anni. Li avrebbe compiuti, se non fosse stata uccisa nel 1985 in Ruanda, probabilmente da bracconieri, per le sue attività di studio e protezione dei gorilla. Una narrazione della vicenda è anche in un film, Gorilla nella nebbia (1988). Donne e storie come queste sono pericolose per un sistema basato sullo sfruttamento e sulla guerra, perché portano avanti un discorso radicalmente opposto. Lo portano avanti perché ci insegnano non le differenze che ci separano dall’altro (sia esso un gorilla, una foresta o un altro umano), ma i legami che ci uniscono. Questa conoscenza è eticamente rivoluzionaria, perché richiede politiche di cura, modelli economici meno devastanti, società più inclusive, e sicuramente una cultura più evoluta.

Secondo te si può parlare anche di “razzismo ambientale”? Mi riferisco alle discariche abusive, i siti inquinati, i rifiuti tossici e chimici che viaggiano dalla Siria alla volta dell’Italia…
Il razzismo ambientale esiste ed è “canonizzato” nel discorso ecologico da alcuni decenni. Si tratta una forma di ingiustizia sociale in cui la rovina dell’ambiente si accompagna a pratiche di discriminazione razziale profonde, spesso figlie di un colonialismo mai risolto o di una società che non si è mai del tutto emancipata dai suoi vari apartheid. Per quanto riguarda l’Italia, le discriminazioni socio-ambientali esistono, ma non credo che si possa parlare di razzismo come avviene per gli USA o per i paesi africani sfruttati dalle multinazionali del petrolio (un caso per tutti è lo scempio del Delta del Niger). Penso invece che si possa certamente parlare di ingiustizia ambientale per il modo in cui vengono gestite certe politiche ambientali dei territori, in particolare le crisi dei rifiuti. Le varie “emergenze” di Napoli e Palermo, per esempio, rivelano una crisi congiunta di ambiente e cittadinanza. Non penso qui solo ai traffici criminali delle ecomafie; è un fatto che, nei loro risvolti politici, queste famose “emergenze” (spesso create ad arte per alimentare i vari livelli di un sistema clientelare) sembrano una declinazione “eco” della frattura storica, sociale e politica dell’eterna questione meridionale. Per questo parlo di crisi di cittadinanza: nell’ecologia politica dei rifiuti e della gestione del territorio, il ruolo della cittadinanza è ancora troppo marginale. Quello delle armi chimiche siriane è un caso esemplare di decisioni prese senza tenere in conto le voci locali, quelle degli amministratori e dei cittadini. Nota bene: non si tratta di “sindrome nimby”, ma di democrazia ambientale. E qui la cosa più grave non sono i 1.500 containers di armi chimiche, ma il fatto che nei porti italiani, incluso Gioia Tauro, transitino ogni giorno 2.000 tonnellate di agenti altrettanto nocivi. Di questo la popolazione sa poco o nulla.
Inoltre, la “distruzione” di queste armi siriane dovrebbe avvenire in acque internazionali (il Mediterraneo?), il che significa che rimarrebbero comunque nell’ambiente (e se una busta di plastica ci mette 1.000 anni per dissolversi, figuriamoci tonnellate di sarin).

Con un ultimo sguardo all’Italia, che legame può esserci tra giustizia ambientale ed ecocritica?
Sono convinta che in Italia (nelle Italie che s’intrecciano sotto i nostri piedi) la categoria della giustizia ambientale sia essenziale per capire le dinamiche socio-ecologiche degli ultimi cinquant’anni. La cosa che però trovo necessaria è allargare questo concetto dall’ecologia politica della società all’“ecologia politica delle cose”, e cioè quella che investe luoghi, paesaggi, e flussi bio-materiali. L’“Italia maltrattata”, come la chiama Francesco Erbani, non è solo frutto di ingiustizie verso le persone, ma anche di politiche economiche e industriali che hanno colpito luoghi, paesaggi e forme di vita non umane. Quelli, sicuramente, una voce non l’avranno mai. Sarebbe bello costruire, accanto a un archivio delle voci inespresse delle vittime umane, anche un archivio che parli del “corpo politico” dell’Italia materiale. Questo è un progetto a cui sto lavorando, e le premesse sono tutte in Ecologia letteraria.