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Lo sviluppo entro i limiti
Intervista ad Anders Wijkman
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:
Natura in bancarotta
Perché rispettare i confini del pianeta

di Wijkman Anders, Rockström Johan
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Individuati e presentati nel 2009, i confini planetari sono subito diventati un elemento centrale nella definizione delle proposte più avanzate in tema di sostenibilità. Abbiamo chiesto ad Anders Wijkman, autore insieme a Johan Rockstrom del 33.esimo Rapporto al Club di Roma Natura in bancarotta, di illustrarci le relazioni tra teoria dei confini planetari, sviluppo e giustizia sociale e sistemi economici.

Vorrei iniziare dal paper del 2009, “Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity”, in cui per la prima volta sono stati individuati e descritti i confini planetari. Il concetto di confini planetari ha ricevuto diverse critiche: ritiene che abbia bisogno di qualche correzione?

Il concetto dei confini planetari ha ricevuto, nel complesso, un ampio supporto internazionale. Come è ovvio, non sono però mancate le critiche, riconducibili a tre diverse tipologie.
La prima è sostanziale, e rileva come non ci siano prove scientifiche dell’esistenza di tipping point globali per i nove confini planetari. È vero. La cornice teorica dei confini planetari non implica peraltro che tutti i processi che definiscono i confini planetari siano caratterizzati da soglie globali. Al contrario, la teoria cerca di individuare i processi ambientali che regolano lo stato del pianeta nell’Olocene, l’epoca geologica in cui stiamo vivendo. Ci sono processi che hanno delle soglie globali (come il clima, gli oceani e lo strato di ozono), ma altri, come quei sistemi della biosfera che operano sia come pozzi sia come sorgenti per i gas serra, finora non hanno dato segno di avere tipping point globali.
La seconda tipologia di critiche sostiene che la teoria dei confini planetari non è rilevante per la politica. Si tratta di una contestazione perlomeno strana. La teoria dei confini planetari non è mai stata pensata come qualcosa che dovesse servire ai decisori politici. Era, invece, una sfida per le scienze del Sistema Terra. Il fatto che abbia suscitato così tanto interesse nella politica e nel mondo degli affari si deve probabilmente all’importanza del messaggio che porta con sé. Peraltro, i confini vanno rapportati anche alla scala interstatale e nazionale, e molti gruppi di ricerca stanno lavorando in questa direzione.
La terza critica sostiene che la teoria dei confini planetari non considera l’equità e la giustizia, perché si concentra esclusivamente sull’individuazione dei confini biofisici della Terra senza affrontare la povertà, le diseguaglianze e la fame... Si tratta di un fraintendimento frustrante, dato che trascura che la teoria dei confini planetari sottolinea esplicitamente il diritto allo sviluppo delle comunità più povere (il loro diritto ad accedere allo spazio ecologico rimasto sulla Terra). In questo senso, gli sforzi per esempio di Kate Raworth (una convinta sostenitrice della teoria dei confini planetari) per combinare la teoria con la prassi sociale, per creare così una versione più estesa dei confini planetari, costituiscono un progresso assai importante.

Quali sono le ragioni del fallimento dell’attuale modello economico-finanziario? E quali le proposte più credibili per migliorarlo (o addirittura superarlo)?
Si tratta di una domanda a cui è difficile rispondere brevemente. Mi viene in mente una combinazione di fallimenti politici, tra cui la mancanza di volontà, e di gravi mancanze nell’impianto economico neo-classico. Molti economisti concordano sul fatto che le esternalità – come l’inquinamento, il degrado degli ecosistemi e la distruzione della biodiversità – dovrebbero essere internalizzati, e dovrebbero avere un prezzo di mercato. In molti settori, però, i politici si rifiutano di farlo. Cosa ancora peggiore, in molti settori – combustibili fossili, risorse ittiche e forestali, trasporti – continuano a erogare sussidi a favore di pratiche ambientalmente distruttive. Come se non bastasse, i modelli economici usati praticamente in tutto il modo hanno molti limiti: non danno un valore ai servizi della natura, sono basati sull’assunto per cui tutti i tipi di capitale possono essere sostituiti senza problemi – non possiamo però mangiare il denaro, usano un sistema sbagliato per attualizzare i valori futuri, ritengono che la crescita convenzionale potrà continuare all’infinito...
Il sistema finanziario è totalmente fuori controllo. Non supporta l’economia reale come dovrebbe fare e non dà priorità alla sostenibilità nel lungo periodo.
In poche parole, abbiamo bisogno di una riforma sostanziale del sistema economico-finanziario. La cosa principale è che gli economisti devono capire che l’economia è un sottoinsieme dei sistemi naturali, e non il contrario! Purtroppo, dovrà passare ancora molto tempo prima che ciò avvenga.

Quali sono i paesi che stanno facendo meglio nell’economia verde? E perché?

Anche se ci sono pochi esempi, ci sono alcuni paesi che emergono. La Danimarca quando si tratta dell’efficienza energetica. La Germania per le rinnovabili. Il Costa Rica per la protezione degli ecosistemi e della biodiversità. In Cina i livelli di inquinamento sono spaventosi, ma – almeno al livello dei documenti ufficiali – stanno facendo grandi sforzi per affrontare la questione.

Vorrei chiudere con una domanda molto “difficile”: ci sono, a suo avviso, ragioni per essere ottimisti?

Sì, semplicemente perché ci sono un sacco di opportunità per fare le cose in modo più intelligente. Abbiamo tutte le informazioni che ci servono. I dati da soli, però, non bastano a smuovere le persone. Abbiamo bisogno di una storia, di una narrazione avvincente. Forse dovremmo chiedere aiuto agli scienziati del comportamento o ai neuroscienziati.