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Abbiamo bisogno di storie? di Marco Moro
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Perché in Italia no? di Diego Tavazzi
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Perché in Italia no?
Intervista a Duccio Bianchi e Roberto della Seta
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:
Ambiente in Europa
Economia verde: Italia-Germania è sempre 4 a 3?

a cura di Duccio Bianchi, Della Seta Roberto
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Ambiente in Europa è diviso in due parti. La prima, curata da Roberto Della Seta, analizza la situazione dei partiti e della proposta politica “verde” in Europa e nel nostro paese, e tenta di rispondere alla domanda espressa nel titolo di questo pezzo. La seconda, curata invece da Duccio Bianchi, è dedicata allo stato dell’industria in Europa, e presenta un’ampia serie indicatori sulle condizioni economiche, sociali e ambientali in Italia. Abbiamo chiesto ai due curatori di presentarci il loro lavoro.

Comincerei dal titolo del tuo capitolo che apre il libro: “Ecologia e politica: perché in Italia no?”. Cioè: perché mentre alle elezioni in Europa i Verdi raggiungono la doppia cifra in Italia rischiano l’estinzione?
RDS. La domanda è brutale, ma per chi come noi pensa che l’ecologia sia soprattutto “politica”, impegno per cambiare la società e l’economia, è una domanda cruciale. Le risposte che proponiamo sono molteplici e tutt’altro che univoche. Partono quasi tutte da una stessa constatazione: l’ambientalismo politico in Italia ha una storia ricca e già antica, siamo stati uno dei primi paesi europei con eletti Verdi in Parlamento e il primo in assoluto con un ministro dell’ambiente Verde (Rutelli nel 1993). Oggi invece l’Italia è l’unico tra i soci fondatori dell’Unione europea dove gli ecologisti sono fuori dal Parlamento. Come è stato possibile? E soprattutto: come si può rimediare? I diversi contributi sul tema presentati in Ambiente in Europa offrono, com’è naturale, punti di vista assai diversi tra loro, ma mi pare concordino su un punto: qualunque progetto che voglia restituire rappresentanza e autonomia alla questione ambientale in politica deve, per usare un’espressione oggi di moda, “cambiare verso”. L’ambiente non è più un pensiero minoritario e di nicchia e non è più, nemmeno, soltanto un “valore”. È diventato bisogno sociale per milioni di italiani che vivono tutti i giorni nelle città più inquinate d’Europa o in aree, dall’Ilva di Taranto alla Terra dei fuochi, contaminate dai veleni industriali, ed è diventato interesse economico per migliaia di imprese della “green economy”. Solo parlando linguaggi nuovi, superando l’orizzonte stretto che ha contrapposto a lungo ecologia ed economia, ecologia e benessere, l’impresa di dare nuova vita all’ecologia in politica potrà non essere una missione impossibile.

Com’è la situazione dei Verdi in Europa, anche in vista delle imminenti elezioni europee?
RDS. Nell’Europa Centrale e in quella del Nord i Verdi e gli ecologisti sono ormai protagonisti consolidati del paesaggio politico: così in Germania, in Francia, in Austria, in Olanda e in Belgio, nei paesi scandinavi. Ma qualcosa si muove anche a Est e a Sud: nelle recenti elezioni ungheresi il partito Verde ha ottenuto il 5% dei voti ed è entrato in Parlamento, in Spagna gli ecologisti sono già forti in Catalogna e in crescita anche nel resto del paese. Vedremo come andrà per gli ecologisti alle imminenti elezioni europee. Certo la proposta Verde in Europa è l’unica alternativa plausibile a due mali opposti ed entrambi molto insidiosi: l’antieuropeismo di destra e di sinistra che vede l’Europa come una minaccia, e il conservatorismo delle larghe intese tra popolari e socialisti che governa l’Europa nel segno dei tagli sistematici ai bilanci pubblici. I Verdi, ripeto, con le loro proposte di un “green new deal” per uscire dalla crisi e di un’Europa più unita ma anche più democratica e federalista, sono l’unica alternativa credibile.

Anche se può apparire sorprendente, dall’analisi condotta per Ambiente in Europa risulta che l’Italia vince nettamente il confronto con la Germania per quanto riguarda consumi di risorse ed energia e per le emissioni. Si tratta di una situazione per certi versi paradossale, considerate l’indifferenza e l’attitudine alla complicazione che caratterizzano la nostra classe dirigente. Puoi spiegarci come ha fatto l’Italia a conquistare questo primato?
DB. In effetti è quasi sorprendente che l’Italia abbia non solo meno consumi di materia, di energia di emissioni di anidride carbonica per unità di Pil (oltre che pro capite) rispetto alla Germania, ma soprattutto che a partire più o meno dal 2005 abbia fortemente accelerato (dopo una lunghissima stasi) la propria efficienza energetica, dematerializzazione e penetrazione delle rinnovabili. Le ragioni principali sono quattro. La prima è la rapidità con cui l’industria italiana, in presenza di una fortissima crescita dei prezzi energetici dopo il 2005, ha adottato tutta una serie di misure di efficienza a cui non aveva fatto ricorso in anni di bassi costi. La seconda, ovviamente, è la presenza di un sistema di ricchi incentivi (ma più o meno come quelli tedeschi) alle rinnovabili, in particolare elettriche, che ne fanno subito decollare l’utilizzo. La terza, molto importante in termini di consumo di materia, è la conversione dell’industria edilizia, dal nuovo alla ristrutturazione (e anche questo è un po’ il frutto un po’ degli sgravi fiscali). La quarta componente, da non dimenticare, è la crescita del riciclo nel comparto siderurgico, nella produzione di metalli (dall’alluminio al piombo), nel settore cartario o vetrario, che riduce (quando non soppianta completamente) le produzioni da materie prime, perlopiù importate. Tutto ciò segnala che l’Italia ha una struttura economica fondamentale ben “vocata” alla conversione ecologica. Potremmo domandarci cosa sarebbe successo se – come in Germania – le misure di sostegno pubblico all’efficienza ambientale fossero state un pilastro delle politiche, anziché un evento un po’ casuale.

Il settore industriale italiano, che pure ha prodotto reddito e occupazione, ha alle spalle una lunga storia di disastri, collusioni con amministratori e decisori politici, inerzie, conservatorismi e incapacità di innovare... Ci sono esempi in controtendenza, che magari operano nei settori emergenti della green economy?

DB. Le buone prestazioni di cui abbiamo parlato dipendono solo in parte dalla green economy. In effetti, dipendono soprattutto dall’economia manifatturiera ed edilizia tradizionale. Esempi di efficienza e innovazione si trovano forse più nell’agroalimentare o nel design e arredamento che nei settori della green economy. Abbiamo un bel settore di biochimica (anche se non abbiamo più la leadership di un tempo), abbiamo una fortissima industria del riciclo. Abbiamo soprattutto una eccezionale capacità di microinnovazione, quella che magari non si brevetta, nell’efficientamento energetico e nell’uso di materiali. L’Italia non è un leader – e credo non lo diventerà – nella produzione di pannelli fotovoltaici e pale eoliche. Ma è un leader in tanti altri settori manifatturieri e di servizi e anche se soffre di un drammatico ritardo di innovazione tecnologica (d’altra parte se abbiamo l’incidenza di laureati più bassa d’Europa perché dovremmo avere tanti brevetti?) ha almeno una grande capacità creativa e di assemblaggio. Però bisogna che faccia “sistema”, che faccia rete. Se due industrie italiane inventano due tecnologie di riciclo tessile innovative (premiate dalla US EPA e dalla Ue) e poi le realizzano una in Slovenia e l’altra negli Stati Uniti qualcosa non funziona.