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Materia Rinnovabile di Maria Antonietta Giffoni Redazione Nextville
Green Economy e imprese in Italia di Diego Tavazzi
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Green Economy e imprese in Italia
Rapporti, benefici e prospettive
di Diego Tavazzi

In questo articolo parliamo di:
Le imprese della Green Economy
La via maestra per uscire dalla crisi

a cura di E. Ronchi Edo et al.
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Con quella di quest’anno, sono tre le edizioni del Rapporto della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile sulla green economy. Abbiamo chiesto a Toni Federico, Roberto Morabito e Grazia Barberio, tre dei curatori di Le imprese della Green Economy, di darci una definizione dell’economia verde, e di illustrarne caratteristiche e potenzialità nel nostro paese.

Come molti altri termini della “galassia sostenibilità”, anche “green economy” viene spesso usato a sproposito. È possibile dare una definizione esatta?

Di “green economy” si parla da ormai un quarto di secolo, prima ancora che nel lessico internazionale entrasse il concetto di “sviluppo sostenibile” della Brundtland con l’Earth Summit di Rio 1992. Il forte contenuto evocativo di questi termini è la causa dell’uso talvolta eccessivo che se ne fa ed è all’origine di qualche forma di fruizione retorica, di qualche travisamento e di un forte logoramento mediatico. Un recente studio ha dimostrato che la diffusione del termine “green economy” è avvenuta sul web a spese del termine sviluppo sostenibile. Mode! Tutto ciò non è per nulla proporzionale ai paradigmi reali che questi termini rappresentano e che si iscrivono solidamente nel mondo delle scienze sociali e dell’ecologia. Il Summit di Rio+20 è quello che accredita la green economy come elemento costitutivo dello sviluppo sostenibile. Tra le certezze che abbiamo solidamente conseguito è che il pilastro economico dello sviluppo sostenibile non può restare nelle mani dell’economia tradizionale postbellica, iperconsumistica e iniqua, la stessa che ha portato il mondo alla grave crisi del 2008 da cui il nostro paese non è ancora uscito: la chiamiamo “brown economy”, Corporation 1920 ecc.
Il programma della green economy nasce con la crisi mondiale per opera dell’UNEP come contrappunto ai gravi fallimenti dell’economia corrente. È un progetto di trasformazione con tre solidi cardini: è un’economia che (1) ha per obiettivo il benessere della comunità umana, (2) l’equità e (3) la riduzione dei rischi ambientali e della scarsità delle risorse. Le novità davvero rivoluzionarie sono molte. Anzitutto il profitto delle imprese non è più il parametro guida. I limiti fisici dell’ambiente, i cosiddetti planetary boundaries, sono accolti come fattore condizionante dello sviluppo e il benessere umano cui ci si riferisce non è più letto attraverso la lente deformante del Pil. Il benessere della green economy è al contrario solidamente ancorato alla conservazione del patrimonio globale da cui origina la ricchezza delle nazioni, formato dagli stock di capitale umano, sociale e naturale, oltreché, ovviamente monetario e infrastrutturale.
Con il lancio degli Stati generali della green economy in Italia abbiamo iniziato un percorso ormai triennale con il quale le stesse imprese gradualmente vanno assumendo consapevolezza dei vantaggi e degli obblighi della trasformazione green, come si legge nei documenti finali del Consiglio nazionale. I rapporti annuali che accompagnano gli Stati generali per opera della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e dell’Enea sono stati prodotti con il fine di dare chiarezza a questi contenuti e di allineare programmi e politiche agli sviluppi mondiali della trasformazione green. I tre Rapporti sono stati dedicati rispettivamente all’inquadramento concettuale della green economy, alla centralità della lotta al cambiamento climatico ed al ruolo di protagonisti che spetta alle imprese nel processo di trasformazione per una nuova economia.


Come si sta affermando in Italia il percorso verso la green economy? Quali sono le potenzialità? E quali gli ostacoli? E quali le necessità e le priorità per un’efficace attuazione?
A Rio+20, nel 2012, la green economy è stata adottata come lo strumento per realizzare uno sviluppo sostenibile sociale, economico e ambientale, nel rispetto delle specificità e delle culture nazionali e locali, concludendo così il ciclo aperto dal programma UNEP nel 2008. È bene chiarire che la green economy, se comporta l’adozione di modelli imprenditoriali alternativi alla brown economy, non mette però in discussione gli assetti proprietari delle imprese né il loro diritto a perseguire, tra gli altri, l’obiettivo della buona performance economica. Aziende in salute investono nell’innovazione, aziende decotte non fanno altro che aggrapparsi ai vecchi modelli per sopravvivere in qualche modo. La green economy è inoltre intrinsecamente legata al carattere globale dell’economia mondiale e si deve misurare con il mercato globale.
La penetrazione della green economy, dunque, in Italia come altrove, non può che essere legata all’atteggiamento delle imprese, talvolta determinato da un difficile bilancio tra conservazione e innovazione, tra crisi in atto e prospettive della nuova economia. Una parte crescente delle aziende sono core green per oggettiva collocazione settoriale. Tali aziende promuovono la green economy ma non sempre adottano un coerente modello aziendale green, in particolare rispetto ai processi interni, alla gestione ed all’occupazione.
Il grosso della trasformazione è però quello delle aziende go-green che producono beni e servizi non necessariamente ambientali ma nemmeno nocivi per l’ambiente, con modalità processistiche e gestionali che vanno progressivamente adattandosi ai paradigmi sociali e ambientali della green economy, sostenendo lo sviluppo dell’occupazione, il miglioramento del capitale umano, l’equità distributiva e retributiva, l’interesse generale degli stakeholder piuttosto che quello dei soli azionisti. Tendenze di questo tipo sono evidenti in molte aziende, alcune delle quali di dimensioni globali. Si tratta di scelte genuine, anche se talvolta si evidenziano tentativi di green washing mediante prese di posizione, messaggi mediatici e pubblicitari che tendono a catturare la preferenze del pubblico verso i prodotti e i processi di qualità ambientale, senza però cambiare alcun modello o comportamento aziendale.
Il sistema industriale in Italia ha attivato il percorso della green economy mediante il Consiglio nazionale della green economy, formato da 67 organizzazioni di imprese, che convoca ogni anno, in collaborazione con il Ministero dell’ambiente e con il Ministero dello sviluppo Economico gli Stati generali della green economy, giunti quest’anno alla terza edizione.
La green economy richiede politiche attive e forti investimenti, premialità per i comportamenti virtuosi, una regolamentazione chiara e trasparente che elimini i vantaggi (incentivi, preferenze politiche) che sono ancora tali da inclinare il campo di gioco in favore della brown economy, per usare una metafora anglosassone. Richiede anche da parte dei cittadini un cambiamento verso la cultura della responsabilità. A fronte degli evidenti ostacoli le priorità sono dunque orientare un aumentato volume di investimenti verso l’ecoinnovazione dei prodotti e dei processi, l’eliminazione di merci e servizi dannosi per l’ambiente, una diversa gestione del territorio capace di restituire valore al patrimonio naturale e architettonico, una selezione severa dei consumi capace di evitare sprechi ed esternalità negative per l’ambiente e per la comunità sociale.

Quali sono gli atteggiamenti politici e delle amministrazioni in Italia rispetto alla green economy?
La risposta non è semplice e i dati disponibili sono scarsi e quasi sempre contraddittori. Si parla poco di green economy: il messaggio non è probabilmente scattato nella mente degli opinion maker, forse sovrastato sui media italiani dalla gravità della crisi e dall’urgenza dei tanti scandali. La green economy non ha trovato ancora un testimone capace di alti livelli di ascolto. Dal discorso di Edo Ronchi agli Stati Generali di Novembre si ricavano gli elementi essenziali del messaggio della green economy: “Nulla ha potenziali di sviluppo, di benessere e di nuova occupazione comparabili con quelli di una green economy. Per affrontare la crisi climatica sono necessari forti cambiamenti del nostro modello di sviluppo. Oggi l’elevata qualità ambientale non è solo un vincolo, ma un’opportunità. In Italia occorre puntare su una green economy basata sulle vocazioni della nostra manifattura e sulle nostre risorse, culturali e naturali, di qualità e di bellezza”.
Per trovare una presa di posizione esplicita da parte del premier Matteo Renzi ci si deve riferire all’intervento all’Assemblea Generale ONU di settembre diviso in due parti, al Climate Summit e in seguito all’Ecosoc. Nel primo c’è una celebrazione d’obbligo della politica climatica europea: “È importante la riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030 e dell’80-90% al 2050, sempre rispetto ai dati del 1990. I nostri figli attendono che a Parigi l’accordo sia vincolante, le nostre economie attendono che i posti di lavoro legati alla green economy siano davvero una opportunità. Quello che stiamo facendo non guarda solo al passato ma è soprattutto un segno di responsabilità verso il futuro”. Parlando in italiano, nella sala dell’Ecosoc, descrive un paese che va avanti e non indietro e che anzi, sulla tecnologia e l’innovazione sta diventando competitiva. “Ci aspettiamo un aumento dei posti di lavoro che arriverà da innovazione, tecnologia e green job”. Citando un documento medioevale di Siena, ha detto di venire da “una terra fatta da città che hanno sempre avuto a cuore la bellezza. È necessario introdurre proprio la parola bellezza nel dibattito sul climate change. Ad agosto del 2014 l’Italia ha prodotto il 45% dell’energia elettrica dalle fonti rinnovabili e il 22% delle aziende ha investito in ambiente. I bambini nel mondo giocano su giostre fatte con tecnologie nostrane”. Dall’Italia Renzi si aspetta “maggiore tecnologia verde e innovazione”, dal mondo di domani “una riduzione dell’80-90% delle emissioni, rispetto al 1990, entro il 2050”.
Per una rassegna esaustiva delle posizioni (individuali) dei soggetti politici e delle associazioni va consultato il recente “Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla green economy”, predisposto dalle Commissioni congiunte VIII Ambiente e X Attività produttive, pubblicato il 18 settembre 2014.
Il Ministro dell'Ambiente, Galletti, dichiara che vi sono "potenzialità occupazionali offerte dalla green economy, infatti, l'EU comunica che con l'aumento della produttività delle risorse in Europa potrebbero essere creati più di 20 milioni di posti di lavoro entro il 2030". Tutto molto bello, ma non è (ancora) nel programma di governo!

Cosa si intende per ecoinnovazione? Cosa spinge le aziende a fare ecoinnovazione?
Il concetto di innovazione e la sua importanza per la crescita economica è studiato da molti anni e, spesso, è alla base di iniziative di politica economica, mentre l’ecoinnovazione è un’idea ancora relativamente nuova per la quale esistono diverse definizioni. L’OECD ha evidenziato le differenze tra ecoinnovazione e innovazione genericamente intesa su due aspetti principali (OECD, 2009): “ecoinnovazione è quell’innovazione la cui enfasi principale è rivolta verso la riduzione degli impatti ambientali [...] non è limitata alle sole innovazioni dei prodotti, dei processi, delle tecniche commerciali e/o organizzative [...] e include anche le innovazioni sociali e istituzionali”.
L’ecoinnovazione è uno strumento significativo della green economy e dell’economia circolare in quanto implica la capacità di innovare non solo cicli produttivi e consumi ma anche approcci culturali e stili di vita. L’ecoinnovazione promuove sistemi di produzione e di consumo basati sulla gestione sostenibile delle risorse e sulla riduzione degli impatti ambientali e sociali al fine di un miglioramento della qualità di vita (attuale e futura!), con l’obiettivo di raggiungere un nuovo modello che disaccoppi crescita, uso risorse e impatti sui sistemi.
Gli effetti positivi dell’ecoinnovazione sono non solo quelli diretti sull’ambiente (riduzione impatti, migliore gestione di risorse, utilizzo/salvaguardia del territorio) ma anche il miglioramento del benessere sociale (creazione posti lavoro ed effetti indiretti derivanti da minori impatti) e della competitività delle imprese (miglioramento di qualità del prodotto, riduzione dei costi per approvvigionamento materie, consumi energetici e smaltimento, accesso a maggiori fette di mercato, possibilità di accesso a sistemi di certificazione e etichettatura) dei settori industriali e dei paesi dove tale ecoinnovazione è sviluppata.
I tre macro fattori che spingono le imprese a investire in ecoinnovazione sono la regolamentazione (necessità di rispettare le previsioni normative e volontà/capacità dell’impresa di anticipare o adattarsi al quadro normativo), le caratteristiche dell’offerta (migliorare la struttura dei costi produttivi, innovare gli aspetti gestionali – EMAS, ISO 9000 – responsabilità estesa del produttore – CSR – avere capacità nelle aree di R&D e creare una struttura delle “catena del valore”) e le Caratteristiche della domanda (diffusione della “sensibilità” ambientale; preferenza dei consumatori per prodotti/aziende ecocompatibili; attese per l’aumento di quote di mercato e di ingresso in nuovi segmento di mercato).
L’innovazione e l’ecoinnovazione mostrano un trend crescente, supportate da investimenti pubblici e finanziamenti europei, anche se tale aumento ha mostrato un calo nel 2012.
Un ruolo molto importante nel favorire lo svilupparsi di ecoinnovazioni è ricoperto dalla governance che deve garantire una nuova politica industriale chiara trasparente e a lungo termine, per coniugare competitività delle imprese a sostenibilità dei sistemi produttivi e creare un contesto stabile e omogeneo per le attività imprenditoriali; sensibilizzare e supportare le imprese; stimolare investimenti verso innovazioni radicali con ampi effetti sistemici; favorire creazione di “luoghi” di sviluppo di sistemi di ricerca e conoscenza per una trasformazione partecipata, equa e inclusiva verso una cultura della responsabilità.


Toni Federico, Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile
Roberto Morabito, Ricercatore Enea, capo dell’Unità tecnica Tecnologie Ambientali
Grazia Barberio, Ricercatrice Enea, Unità tecnica Tecnologie Ambientali