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Due gradi di speranza a cura di Diego Tavazzi
Bioeconomia a cura di Paola Fraschini
Come uscire dal labirinto (del tempo) a cura di Diego Tavazzi
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Bioeconomia
Intervista a Beppe Croce
a cura di Paola Fraschini

In questo articolo parliamo di:
Bioeconomia
La chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana

di Beppe Croce, Ciafani Stefano, Lazzeri Luca
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Per come fu concepita l’industrializzazione del nostro paese sembra passata un’era geologica. Invece stiamo parlando di pochi decenni fa, quando si realizzarono grandi e impattanti poli chimici in luoghi che oggi non verrebbero mai presi in considerazione: Porto Marghera a pochi chilometri dal “gioiello” di Venezia, il sito produttivo di Manfredonia edificato in un’area del Gargano oggi Parco nazionale, quello di Porto Torres costruito a poca distanza dal paradisiaco Parco nazionale dell’Asinara... L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma, come scrive Gunter Pauli, “o l’economia diventa una bioeconomia o non avrà alcun futuro”. E fortunatamente le cose stanno cambiando, come ci racconta Beppe Croce in anteprima rispetto alla presentazione il 25 febbraio a Cremona del suo libro, Bioeconomia, scritto insieme a Stefano Ciafani e Luca Lazzeri.

Ha ragione Gunter Pauli quando scrive “o l’economia diventa una bioeconomia o non avrà alcun futuro”?
Sicuramente. Non è più pensabile attingere allo stock di riserve fossili e minerali del pianeta con la stessa intensità del secolo scorso e degli ultimi anni. Il passaggio alle fonti rinnovabili nei consumi energetici, nei materiali, nella chimica non è un’opzione, è una necessità. Ma attenzione: guai se pensassimo che si tratta solo di una sostituzione di materie prime. Il passaggio alla bioeconomia implica un salto culturale nelle forme di consumo, nell’efficienza dei processi e delle filiere di distribuzione e soprattutto nel rapporto con gli ecosistemi naturali. Questo è il messaggio fondamentale del nostro libro. Utilizzare risorse biologiche implica avere a che fare col suolo, col problema della produzione di cibo, col futuro della biodiversità vegetale e animale sul pianeta: se pensassimo di intervenire con le logiche attuali dell’agrobusiness e dei mercati mondiali delle commodities, abbiamo già fallito in partenza.

Cosa si intende esattamente per bioeconomia e chimica verde?
In estrema sintesi significa riconvertire l’economia all’utilizzo di “risorse biologiche rinnovabili”: piante, colture erbacee, sottoprodotti dell’agroalimentare, funghi, lieviti, batteri, alghe, ma anche la frazione organica dei rifiuti urbani. Il mondo della materia vivente ci offre un giacimento di molecole molto più ricco e diversificato di quello degli idrocarburi di origine fossile. Molecole e sostanze “rinnovabili”, grazie allo straordinario meccanismo della fotosintesi. La chimica verde è il sistema di conoscenze e di tecniche che ci permette di trasformare queste molecole in bio-prodotti utilizzabili per le nostre necessità quotidiane: farmaci, polimeri, detergenti, solventi, prodotti fitosanitari per l’agricoltura biologica.

Cosa c’è di innovativo in un ritorno alle materie prime del passato?
C’è che rispetto al passato le condizioni di vita sulla Terra sono diventate enormemente più complesse. Non solo siamo sempre di più, ma con le nostre attività industriali abbiamo oltrepassato o stiamo oltrepassando in vari casi i limiti che hanno consentito lo sviluppo della vita umana sul pianeta. Tutti oggi guardano giustamente ai cambiamenti climatici e all’effetto serra come alla principale minaccia. Ma come ci ha ammonito il rapporto Rockström, questo studio svolto alcuni anni fa da una grande équipe interdisciplinare di scienziati, non è solo l’accumulo di anidride carbonica in atmosfera a essere alla soglia di allarme, ma anche l’accumulo di azoto reattivo e di fosforo nelle acque di falda e negli oceani, la perdita di biodiversità, la perdita di sostanza organica nei suoli... In simili condizioni restituire all’agricoltura, al mondo vegetale, il ruolo di fonte primaria di materiali, prodotti e di energia implica un salto di conoscenze e di innovazione enorme rispetto al passato. Un ruolo centrale lo avranno le scienze della vita e la genetica, che ci può offrire ben altre cose che non le colture transgeniche. La proposta degli Ogm si inscrive nel vecchio approccio industriale che ci ha portato ai limiti del collasso degli ecosistemi.

Come si concilia il ritorno all’agricoltura come fonte di beni primari con la previsione di una popolazione di 9 miliardi di persone?
Con un’azione su diversi fronti. Da una parte gli sprechi, non possiamo continuare a buttare via un terzo del cibo prodotto a livello mondiale come ci avvisa la Fao. Su questo a parole sono tutti d’accordo. E poi con un salto nell’efficienza d’uso del suolo. E qui iniziano gli equivoci. Il problema non è l’aumento delle rese agricole. Quantomeno non lo è in aree già ipersfruttate come la Pianura Padana o lo Iowa, dove le rese per ettaro del mais sono arrivate a un limite difficilmente valicabile. Eppure sono suoli malamente utilizzati. È assurdo usare milioni di ettari di superfici irrigue per coltivare una sola pianta e per utilizzarne una minima parte, per esempio solo il seme. Una pianta, qualsiasi pianta, è uno scrigno di molecole ad alto valore aggiunto e noi oggi ne utilizziamo una parte irrisoria per buttare via il resto. La prima bioraffineria, come illustriamo nel libro, è la pianta stessa. Dobbiamo ottenere una cascata di prodotti e non di rifiuti come oggi.
Ma non è pensabile vincere questa sfida solo dal lato della produzione e della distribuzione. Deve cambiare anche la domanda, ossia i nostri stili di consumo. Se prevalesse come modello dominante di dieta, anche nei paesi emergenti, quello della carne rossa bovina, con tutto ciò che implicano gli allevamenti intensivi e il consumo di suolo per produrre foraggi e mangimi per questi poveri animali in attesa di trasformarsi in hamburger, non c’è speranza. Il mondo si dividerà tra obesi e malnutriti. Una dieta sana, basata sul consumo prevalente di frutta e vegetali, e su un consumo moderato di carni di vario tipo, di latte e latticini, ci permetterebbe di ottenere dalle attuali superfici agricole, e dai pascoli, molto più cibo per tutti, per ben più di 9 miliardi.

Come è messa l’Italia nel settore della bioeconomia?
Direi in ottima posizione finora. Forse solo gli olandesi oggi sono davanti a noi. Abbiamo eccellenze mondiali nel campo dei biopolimeri, con la Novamont di Novara, o dei biocarburanti di seconda generazione, con Mossi&Ghisolfi. Si sta sviluppando sul territorio italiano una rete di piccole e grandi bioraffinerie, che potrebbero rilanciare il prestigio della chimica italiana nel mondo, dopo mezzo secolo di decadenza. Una produzione su basi completamente diverse, molto meno nocive e inquinanti dei vecchi poli chimici italiani, che ci hanno lasciato una pesante eredità di terreni contaminati. Ed è significativo che la chimica verde riporti vita e lavoro proprio a partire da alcuni vecchi siti in disuso, come Porto Torres con gli impianti di Matrìca per produrre biopolimeri, biolubrificanti o biofiller, o come Adria dove Novamont avvierà a breve la produzione di bio-butandiolo. Un’altra sfida di notevole importanza potrebbe essere il rilancio di Porto Marghera, se Eni rinunciasse come spero all’idea di produrre biodiesel da olio di palma e puntasse su progetti più sostenibili, come il riuso di oli esausti o come il progetto sul guayule, per produrre una gomma anallergica che avrebbe interessanti applicazioni in campo sanitario e in altri settori. Resta da capire se avremo politiche di supporto adeguate. Per ora il solo segnale positivo, a parte la vicenda della messa al bando dei sacchetti di plastica, è la costituzione di un cluster nazionale della Chimica Verde, e di alcuni cluster regionali, con l’obiettivo di fare squadra e mettere in rete conoscenze e progetti.