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In questo numero:

Star dell'economia ecologica di Marco Moro
Le imprese nel futuro a cura di Diego Tavazzi
La (prossima) rivoluzione energetica nell'edilizia a cura di Maria Antonietta Giffoni Redazione Nextville
Sostenibilità 2.0, e anche qualcosa in più a cura di Diego Tavazzi
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Star dell'economia ecologica
di Marco Moro


È un po’ la scoperta dell’acqua calda, ma ciò che raccontano un paio di inchieste pubblicate di recente mette bene in luce il ruolo delle lobby industriali nel boicottare le politiche ambientali in Europa. Parliamo delle misure sull’inquinamento
e delle politiche a favore dell’economia circolare, non di piccole cose. Non stupisce trovare il nome di Emma Marcegaglia alla guida di Business Europe, che nell’inchiesta di Euractive viene identificato come il gruppo di pressione che ha spinto per affossare la direttiva sull’economia circolare. Business Europe raggruppa le “confindustrie” europee, che si segnalano quindi per il loro impegno nel rallentare o ostacolare lo sviluppo di un’economia sostenibile, che sia green, circolare o biobased.

La situazione sembra paradossale: in sede istituzionale a parole nessuno nega che le politiche europee debbano essere coerenti con gli obiettivi 20-20-20, e che anzi, quella “green” sia l’unica prospettiva credibile di rilancio per l’economia europea, e poi le decisioni concrete vanno esattamente in senso contrario. Tutto questo mentre una parte crescente e ormai molto consistente delle imprese europee si è orientata o si sta orientando verso sviluppi che vanno sempre di più nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale delle produzioni e dei modelli di consumo.

Del ruolo cruciale dell’impresa nel ribaltare un modello di sviluppo che produce “esternalità” negative a livello sociale e ambientale hanno parlato molti nostri autori, da Tim Jackson a Johan Rockström e Anders Wijkman, a Gunter Pauli, Gianni Silvestrini nel recente Due gradi, Edo Ronchi, Beppe Croce, solo per citarne alcuni. Ma chi esprime la visione più chiara e radicale di come le aziende debbano (e possano) rifondare lo stesso significato del loro operare nell’ambiente e nella società è Pavan Sukhdev, che sarà in Italia tra il 20 e il 22 maggio per presentare l’edizione italiana di Corporation 2020.
Nulla di più lontano, nelle argomentazioni dell’economista indiano, da velleitarie prescrizioni di carattere etico: il modello di azienda che risponde alle caratteristiche della “corporation 2020” esiste già, anche in Italia. Se ne possono citare molte, grandi, medie e piccole, aziende che da anni hanno introiettato obiettivi molto più ambiziosi e concreti rispetto quelli che di solito affollano rapporti di responsabilità sociale delle imprese.

Pensando ancora a quanto avverrà da qui a ottobre a Milano: sarà un caso che la Carta di Milano di cui il governo italiano si fa portatore – e la cui sottoscrizione da parte dei paesi partecipanti ad Expo dovrebbe sancire l’atto finale della manifestazione – sia basata (… è un eufemismo) su un documento nato dall’iniziativa di un’azienda? Un’azienda che guarda molto più avanti di chi dovrebbe rappresentarla “politicamente”?
Che diavolo rappresentano oggi le “confindustrie”, organismi inchiodati dalla pretesa di tenere assieme visioni dell’economia e dell’impresa ormai inconciliabili se non in diretto contrasto tra loro? Associazioni asfittiche che si battono solo in difesa degli interessi economicamente più forti e che penalizzano inevitabilmente i settori la cui stessa esistenza mette in discussione la legittimità di un modo di “fare impresa” che ha prodotto le crisi attuali.
Il peso di queste contraddizioni si sperimenta tanto a livello nazionale (che fine ha fatto il green act? Chi ha cercato di fermare la legge sugli ecoreati?) quanto a livello europeo.
Forse è arrivato il momento di mandare in pensione anche strutture come queste. E, soprattutto, di rifondare il modo di fare impresa sulla base dei principi di Corporation 2020.