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In questo numero:

Se tutto fa brodo (e tutto fa Pil) di Marco Moro
Il futuro del cibo? In città a cura di Diego Tavazzi
Nuova mobilità urbana a cura della redazione
Prima di mangiare, fate bene i conti a cura di Diego Tavazzi
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Se tutto fa brodo (e tutto fa Pil)
di Marco Moro


Idea o bufala (cose che spesso corrispondono) circolata qualche tempo fa: inserire nel sistema di contabilità con cui si stima il prodotto interno lordo di una nazione anche l’economia illegale, l’attività delle organizzazioni criminali, il giro d’affari del traffico di droga, della prostituzione, del traffico d’armi e di esseri umani, corruzione e altre amene attività. Attività con cui, in effetti, parte della collettività si tiene occupata.

Nulla di incoerente, dal punto di vista “tecnico”, rispetto al modo in cui viene composto l’indicatore con cui siamo abituati a esprimere la misura della performance delle nostre economie. Il Pil, lungi dall’essere stato concepito come misura del benessere di una nazione, computa in modo indifferenziato fattori che a livello sociale hanno impatti positivi e altri che producono effetti di segno esattamente contrario. Tant’è che il prodotto delle attività illegali o criminali viene già, almeno in parte, registrato dal Pil: spesa per il sistema carcerario, per le forze di polizia, spese a carico del sistema sanitario, spese per il ripristino di danni causati da attività illegali. Eccetera. Eppure, anche se – come sanno in primis gli economisti – il Pil non misura nulla di sensato, di fronte a questo totem siamo straordinariamente acriticamente proni. Politica, sistema dei media e dell’informazione in generale, mondo dell’economia nel suo complesso, dall’accademia, all’imprenditoria fino ai think tank più (e meno) influenti. E la società lo è di conseguenza. Come ha affermato Robert Costanza durante il suo recentissimo passaggio in Europa, con tappa a Milano lo scorso 14 ottobre: “we are addicted to GDP”.
Un’affermazione che, nei due giorni passati in sua compagnia, tra Bruxelles e Milano, ha ripetuto in ambienti molto diversi: al Parlamento europeo, all’Università Bocconi e nel contesto delle iniziative della nascente Università della Sostenibilità. E sì, tutti si annuiva: studenti di economia aziendale, europarlamentari, stakeholders, funzionari della Commissione europea e, naturalmente, chi è già “addicted to green”.

La consapevolezza dell’inadeguatezza del Pil come indicatore economico, o quanto meno come unico parametro di giudizio sulla salute di un’economia, non è infatti storia di oggi ed è pressoché contemporanea alla sua stessa formulazione. Mentre l’elaborazione di quelli che ancora adesso, chiamiamo “indicatori alternativi”, data almeno agli anni Ottanta del secolo scorso. Ed è tuttora un campo di indagine piuttosto vivo, che ha visto momenti (solo momenti) di (relativamente) grande attenzione mediatica, come in occasione della pubblicazione del celebre rapporto, Stiglitz-Sen-Fitoussi. Il che è tutto dire, dal momento che per ora, nonostante tutto, il regno del Pil non appare in pericolo; il programma di disintossicazione che dovrebbe farci uscire dalla dipendenza ancora non si vede e, soprattutto, non c’è nessuno che lo prescriva. Con una conseguenza che va molto al di là del semplice uso di un indicatore notoriamente inadeguato. “Misurare” la crescita solo in termini monetari attraverso il Pil permette di mettere in secondo piano non solo la qualità di ciò che produce il dato, ma soprattutto la direzione a cui si riferisce, l’identificazione dell’asse su cui un’economia sta progredendo o retrocedendo. Nasconde, in sostanza, la capacità o meno di un sistema di compiere delle scelte. Il valore di un’economia che adotta con coerenza una strategia di sviluppo sostenibile si esprime solo attraverso un dato numerico, lo stesso con cui si può esprimere il “valore” di un’economia di una nazione in mano a gruppi criminali. Cosa ci sia dietro il numero, se ci sia un Messico o una Svezia, il Pil non lo dice. Tutto è appiattito in nome del corrispondente universale, essenziale (dicono) al mercato e soprattutto al sistema finanziario. Non è altro che un velo, steso davanti alla realtà delle economie e delle società che le producono.

Riproporre quindi il tema degli indicatori economici in questi due giorni di incontri è stato significativo, specie quando il dibattito connetteva il tema della misurazione e del valore dei servizi ecosistemici con le prospettive di sviluppo dell’economia circolare e della bioeconomia. Lo abbiamo fatto a Bruxelles con la nostra rivista Materia Rinnovabile e grazie alla collaborazione del Gruppo dei Socialisti e Democratici presso il Parlamento europeo.
Lo faremo ancora nei prossimi incontri, a partire da quello che terremo a Rimini il 3 novembre, organizzato in collaborazione con il Comitato scientifico di Ecomondo e gli Stati Generali della Green Economy e con la presenza a Efib, a fine ottobre.
Parleremo di qualità dell’economia, qualità di cui sono parte integrante progetti e processi come quelli di cui si parla nelle nostre più recenti novità librarie, dedicate ai progetti e alle iniziative per una nuova mobilità urbana in Italia e alle innovative politiche delle città in materia di cibo e alimentazione. In particolare, in occasione della firma – avvenuta lo scorso 15 ottobre a Milano – dell’Urban Food Policy Pact sottoscritto da 100 sindaci di alcune tra le più importanti città del mondo è uscito Food and the Cities, primo libro in Italia a documentare i progetto delle città per migliorare il proprio impatto sui sistemi agroalimentari, sull’ambiente e per promuovere la salute dei propri cittadini.
E Milano, unica città italiana a dotarsi di una policy sul cibo, è ovviamente tra le protagoniste di Food and the Cities.