testata logo EDA
In questo numero:

Tra vacche sacre e orti condivisi di Marco Moro
Moda, cannibali e forchette di Marco Ricchetti
Ecomafia 2017: l’anno (forse, speriamo) della svolta a cura di Diego Tavazzi
Alla scoperta della green society a cura di Diego Tavazzi
Sette passi nel futuro delle città di Paola Fraschini
Iscriviti
Contatti
Moda, cannibali e forchette
di Marco Ricchetti

In questo articolo parliamo di:

Neomateriali nell'economia circolare
MODA
a cura di M. Ricchetti

Sfoglia le prime pagine
Acquista on-line
Scarica il modulo d'ordine

“È progresso se un cannibale usa la forchetta”? si chiede di John Elkington nell’incipit di Cannibals with Forks, uno dei più importanti libri sulla sostenibilità pubblicato nel 1997 in cui per la prima volta si formula il principio della triple bottom line. Elkington rispondeva positivamente alla domanda: se i cannibali, che rappresentano nella metafora le grandi corporation che cercano di “divorarsi” l’una con l’altra, usano la forchetta, ovvero adottano modelli di produzione sostenibili, realizzano un vero progresso?

La domanda si applica perfettamente anche alla moda. Si dice infatti che la moda sia cannibale, affetta da una sindrome di Crono al contrario. Nella moda, i figli, le nuove collezioni e tendenze, divorano i padri, le collezioni e le tendenze della stagione precedente, rendendole obsolete, fuori moda e azzerandone il valore commerciale. Si potrebbe rubricare il cannibalismo della moda a perfetto esempio di obsolescenza programmata, come ha scritto Catherine Rampell su The New York Times in un articolo del 2013 in cui – in maniera provocatoria – invitava i marchi come Apple a imitare il brainwashing che la moda esercita sui consumatori a ogni cambio di stagione per convincerli ad acquistare qualcosa di nuovo. C’è ovviamente del vero. Ma anche qualcosa di più, che risulta chiaro se confrontiamo la moda con una “pura” industria creativa come l’editoria o il cinema: si potrebbe forse sostenere che la pubblicazione di un nuovo romanzo o la produzione di un nuovo film siano uno spreco causato da strategie di obsolescenza programmata da parte di editori e produttori? Possiamo limitarci a rileggere o rivedere i classici? Il bisogno di novità è insito nelle industrie creative da cui l’industria ibrida della moda eredita una parte del Dna. Difficile pensare a un mondo in cui il bisogno di novità e la dimensione culturale e simbolica – in una parola la moda – non abbiano grande influenza su come ci vestiamo e in cui l’abbigliamento sia ridotto a pura funzionalità.

Diversamente dalle “pure” industrie creative, come il cinema, la musica o l’editoria in cui la produzione è prevalentemente immateriale, la moda consuma però grandi quantità di materiali. Anzi sono proprio i materiali ad attribuire il valore estetico e simbolico ai capi di abbigliamento: la foggia dell’abito, la “mano” del tessuto, leggerezza, la maggiore o minore lucentezza o vivacità del colore, tutto dipende dai materiali usati o dai processi industriali con cui vengono lavorati. Il libro Neomateriali nell’economia circolare: Moda affronta il tema della tensione che si genera tra dimensione materiale e manifatturiera e il continuo bisogno di novità che alimenta la moda e il consumo di materia. 

Lo “spreco” di materia insito nel cannibalismo della moda aveva un impatto trascurabile quando, alla fine dell’800, il sociologo americano Thorstein Veblen la descriveva come un attributo distintivo della classe agiata, un affare cioè limitato alle elités. L’impatto ha cominciato a crescere dagli anni ’70 del Novecento con lo sviluppo del prèt à porter – termine francese, ma rivoluzione avvenuta in Italia – che ha ampliato l’accesso alla moda a uno strato più ampio di popolazione facendone un fenomeno globale. Ed è infine esploso nel nuovo secolo con il boom del fast fashion che consente a tutti e a prezzi irrisori di sentirsi all’ultima moda, accelerando, per di più, i cicli di obsolescenza dei prodotti. A rendere più drammatica l’esplosione dei consumi materiali di moda ha contribuito poi la crescita del reddito e dei consumi nelle economie di recente industrializzazione. Si pensi per esempio alla Cina dove i consumi di abbigliamento, al netto dell’aumento dei prezzi, sono quasi quadruplicati tra il 2002 e il 2015, secondo i dati del China Statistical Yearbook pubblicato dall’ufficio centrale di statistica cinese.

La dimensione del cambiamento che si è generato negli anni recenti è evidente nei dati sui consumi pro capite di fibre tessili che sono cresciuti negli ultimi 15 anni dai circa 8 kg per abitante del 2000 ai circa 13 kg nel 2015 (+68%), più di quanto siano aumentati nei 40 anni precedenti visto che nel 1960 erano circa 5 kg. Ogni chilogrammo in più consumato, si porta dietro, a parità di materiali, tecnologie e processi impiegati un corrispondente incremento di energia consumata, sostanze chimiche rilasciate nell’ambiente, esaurimento di materiali non rinnovabili.

Queste semplici cifre evidenziano un problema ormai ampiamente riconosciuto e sulla cui importanza c’è un largo consenso tra tutti gli stakeholders della moda. Meno condivisa, invece, è la visione riguardo alle soluzioni. 

Da un lato si fa appello a un cambiamento dei modelli di consumo, a una radicale limitazione del “cannibalismo” della moda, a una ridotta ossessione per la novità che si tradurrebbe in minori consumi e minor spreco di materia. Se il cannibalismo – esteso su una scala di massa e alimentato da prezzi bassi – è la causa del problema, si dice, non può essere parte della soluzione. Un altro punto di vista, invece, assume l’interesse per la moda, e l’obsolescenza anticipata dei prodotti che inevitabilmente ne deriva, come un dato di fatto – fatti salvi alcuni eccessi che meritano una limitazione – e che la soluzione si debba trovare nell’introduzione di nuove tecnologie più sostenibili e modelli economici circolari. Ovvero nel dotare i cannibali – designer e produttori di moda – di forchette, avrebbe detto Elkington. In questa prospettiva le parole chiave sono: riciclo, riduzione e riutilizzo degli scarti; eliminazione di sostanze e processi inquinanti o a elevato impatto ambientale.

Continua a leggere su Materia Rinnovabile 16, maggio-giugno 2017