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A noi rimane il marketing... di Marco Moro
Ambiente Italia 2010, un paese tra luci e ombre di Emiliano Angelelli
Il colore della felicità di Diego Tavazzi
La certificazione energetica degli edifici di Gianni Silvestrini
Più cemento per tutti di Antonio Pergolizzi

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Il colore della felicità
di Diego Tavazzi

Nel panorama mediatico e politico contemporaneo poche espressioni sono più cariche di aspettative e incertezze di quanto lo è green economy. Ne parlano, più o meno a proposito, in moltissimi. Leader di partito, imprenditori, giornalisti e cittadini comuni evocano la conversione verde dell’economia come strumento con cui affrontare e risolvere le crisi (ambientale, climatica ed economico-finanziaria) che attanagliano il nostro tempo. Ma queste aspettative sono davvero fondate? E dietro a tutto questo discutere e teorizzare non si nasconde una quantità notevole di green washing, l’ennesima astuta mossa di marketing per continuare a fare come si è sempre fatto, facendo finta di farlo in un “modo amico dell’ambiente”?
A queste domande prova a rispondere La corsa della green economy, scritto da Antonio Cianciullo, giornalista ambientale di Repubblica, e da Gianni Silvestrini, direttore di Kyoto Club e tra i massimi esperti di rinnovabili ed efficienza energetica in Italia. I due autori partono dalla definizione classica di economia, intesa come “razionale gestione delle risorse disponibili per un determinato uso”, e si domandano cosa c’è di razionale in un sistema come il nostro che postula risorse infinite, crescita infinita e spazio infinito in cui riversare i rifiuti che vengono prodotti. Pochissimo, soprattutto se si considera che le previsioni più accreditate danno per il 2050 una popolazione di più di 9 miliardi di persone, con livelli di consumo di combustibili fossili e di emissioni climalteranti conseguenti. Ecco allora che l’economia ecologica non è un’opzione tra le altre, ma dovrebbe essere l’unica da percorrere con decisione e a gran velocità. In particolare, nella proposta di Cianciullo e Silvestrini la green economy è caratterizzata da una serie di elementi.
Innanzitutto, l’economia verde è democratica, nel senso che accanto agli sforzi di stati e governi (basti pensare al caso della Corea del Sud, che per uscire dalla crisi del 2009 ha dedicato più dell’80% del pacchetto di stimolo all’economia agli investimenti verdi) è individuabile una forte spinta dal basso di cui sono protagonisti i cittadini e le realtà locali. In questo senso, democrazia corrisponde anche a decentralizzazione e localizzazione, cioè al passaggio da un modello verticale a uno reticolare, che affianca a grandi impianti una miriade di nodi in cui l’energia viene prodotta. I grandi impianti, poi, cambiano natura: in tutto il mondo si moltiplicano i casi di parchi eolici e fotovoltaici di dimensioni imponenti, realizzati in aree prima trascurate (nei deserti e al largo delle coste).
La green economy è poi sostenuta dall’innovazione, in un processo virtuoso che genera a sua volta innovazione e crea nuovi posti di lavoro, ma anche dal recupero di tradizioni antiche. Ecco allora che sistemi come quello delle foggara, gallerie filtranti utilizzate da secoli sulla sponda meridionale del Mediterraneo per recuperare l’acqua piovana, vengono studiati e recuperati per ridurre i consumi idrici.
Un’altra caratteristica della green economy è l’imitazione dei processi naturali, che funzionano sulla base di cicli chiusi e che non producono rifiuti, dato che ogni materiale viene riutilizzato senza sosta. Esemplare in questo senso il caso di Novamont: sfruttando una filiera corta capace di valorizzare le realtà locali, l’azienda guidata da Catia Bastioli produce sacchetti da plastica di mais, biodegradabili e utilizzabili come compost. L’efficienza della natura nell’utilizzo delle risorse implica anche una riduzione degli sprechi: fare lo stesso con meno è il principio che guida le attività del Rocky Mountains Institute, guidato da Amory Lovins, e che già vent’anni fa presentò il progetto dell’Hypercar, un’automobile leggera, resistente e con consumi bassissimi. Le idee dell’RMI hanno influenzato l’attività di case automobilistiche come Fiat e Renault, che hanno ottenuto importanti successi commerciali (basti pensare allo sbarco della casa torinese negli Stati Uniti con l’affare Chrysler) grazie alla loro svolta “eco”. Cianciullo e Silvestrini citano anche i casi di STMicroelectronics, della General Electrics e della Siemens, società che hanno incrementato i profitti eliminando sistematicamente gli sprechi (tra l’altro, la riduzione degli sprechi quasi sempre coincide con l’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica).
La green economy investe poi settori come la progettazione degli edifici, che entro un decennio potrebbero trasformarsi da consumatori a produttori netti di energia, e delle città, che a tutte le latitudini cercano di ridurre i costi sociali dovuti a traffico, inquinamento e rifiuti con sistemi di car sharing, incentivando l’uso delle biciclette e potenziando i trasporti pubblici. Inutile dire che gli abitanti di Stoccolma, Zurigo, Friburgo e Copenaghen, città che hanno puntato decisamente in questa direzione, sono più sereni, si sentono meno soli, sono più sani e hanno più figli. Verde è il colore della felicità?