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Relitti fantasma di Antonio Pergolizzi
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Relitti fantasma
di Antonio Pergolizzi


“Il caso Cetraro è chiuso”, hanno annunciato all’unisono in conferenza stampa, il 30 ottobre scorso, il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso e il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Mistero risolto. Quel relitto al largo delle coste di Cetraro, provincia di Cosenza, che ha turbato le notti dei calabresi per più di un mese non è la famigerata nave “Cunsky” imbottita di rifiuti radioattivi, raccontata dal pentito di ‘ndrangheta Francesco Fonti, bensì l’innocuo piroscafo “Catania”: affondato da un sommergibile tedesco il 16 marzo del 1917, in piena Guerra mondiale e per mano del comandante dell’U-Boat 64, tale Robert Moraht, un decorato ufficiale tedesco. E per una volta si scopre il colpevole dell’affondamento di una nave.

Ma questo dovrebbe essere solo l’inizio e non la fine di una lunga storia. Perché, senza contare che in quel tratto di mare i pescatori giurano esserci altri relitti “fantasma”, il caso più generale delle cosiddette navi a perdere rimane aperto. Eccome. Così come rimane da capire chi ha seppellito tonnellate di veleni in quel pezzo di Calabria attraversato dal fiume Oliva, area intorno alla località Serra D’Aiello, proprio laddove uno studio della Regione Calabria ha accertato l’elevata contaminazione radioattiva, con conseguenti aumenti esponenziali di morti per malattie correlate. Dati che hanno messo in allarme anche la Procura di Paola. È bastato poco al procuratore Giordano per individuare numerose discariche abusive, ivi compreso un sarcofago in cemento che le analisi dimostrano essere la probabile fonte radioattiva: si attendono a breve nuovi sviluppi. Il fatto è molto importante perché la prima inchiesta sulle navi a perdere, era il 1994, partì da un esposto di Legambiente su traffici nazionali e internazionali di rifiuti tossici e radioattivi che prendevano le vie del mare e finivano inabissati insieme ai natanti oppure seppelliti nelle montagne calabresi. I conti tornano, dunque. Sono stati numerosi i dossier che Legambiente ha redatto negli anni per denunciare questo fenomeno, così come le inchieste (se ne sono occupati le Procure di Reggio Calabria, di Paola, di Catanzaro, di Matera, di Potenza, di Padova, di La Spezia di Bari e di Asti), tutte arenate dinanzi al mancato rinvenimento del corpo del reato, finito con ogni probabilità seppellito a migliaia di metri di profondità, o ad atteggiamenti ostili o poco collaborativi ai vari livelli istituzionali. Di certo c’è che i magistrati hanno individuato più di una volta un network criminale dedito professionalmente allo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi in mare, lungo le coste di paesi africani (Somalia, Libia ecc.) o nelle montagne dell’Aspromonte e della Lucania. Tutte le indagini, infatti, portano alle stesse persone e vedono il coinvolgimento di soggetti appartenenti al mondo imprenditoriale e delle professioni, armatori, esponenti di spicco di organizzazioni criminali di stampo mafioso, faccendieri e soggetti legati ai servizi segreti deviati e/o ai capi di governo di diversi paesi. Fino a oggi nessuno ha pagato i conti con la giustizia per aver consumato uno dei crimini ambientali più infami.

Qualsiasi sollecitazione ai governi per mettere in campo ogni risorsa per recuperare le navi con il loro carico è finora caduta nel vuoto. Solo per citare alcuni affondamenti sospetti, si ricordano quelli pressoché uguali, in acque calabresi, delle navi “Mikigan” e “Rigel”: la prima affondata dolosamente il 21 settembre 1987 a 20 miglia da Capo Spartivento, la seconda sparita a largo di Capo Vaticano; e poi la “Four Star I” affondata il 9 dicembre 1988 in un punto non meglio precisato dello Ionio meridionale, la motonave maltese “Anni” affondata nell’agosto del 1989 in Alto Adriatico, la motonave “Rosso” finita spiaggiata ad Amantea il 14 dicembre 1990, dopo un “non riuscito affondamento” (come spiegò l’allora ministro Carlo Giovanardi), la motonave “Alessandro I” sparita nel febbraio 1991 nei pressi di Molfetta, la “Marco Polo” colata a picco nel maggio del 1993 nel Canale di Sicilia e così via. Bombe ecologiche che da decenni ammorbano il Tirreno e che andrebbero immediatamente tolte dai fondali, a garanzia dell’incolumità pubblica. Per tutti questi il caso rimane ancora aperto e la domanda di giustizia ancora inevasa.